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Auto aziendale e deducibilità: leasing, noleggio o acquisto cosa conviene e perchè

Nell’articolo precedente “Deducibilità e detraibilità: cosa sono e quali sono le principali differenze” abbiamo visto le differenze tra deducibilità e detraibilità. In merito a quest’argomento, è spesso oggetto di discussione la deducibilità dell’auto aziendale.

La domanda, che più di ogni altra, cerca risposta, è quale sia la forma maggiormente conveniente, dal punto di vista fiscale, quando si tratta di auto aziendale: acquisto, leasing o noleggio.

Auto aziendale: che cos’è

L’auto aziendale è quella destinata ai dipendenti di una società, oppure utilizzate per fini aziendali. Per essere definite tali devono rispondere a una serie di caratteristiche. Devono, ad esempio, avere meno di 24 mesi di vita e meno di 30,000 km. L’auto aziendale può essere assegnata al dipendente per uso strumentale, oppure promiscuo.

Nel primo caso, l’unico soggetto che può guidarla sarà il dipendente a cui è stata assegnata. Nel secondo caso invece può essere guidata anche dai familiari del lavoratore assegnatario. Se l’auto aziendale è inquadrata come “autocarro” per il trasporto di merci, a bordo vi possono salire esclusivamente gli appartenenti alla società addetti al trasporto e al carico/scarico della merce.

Se la disponibilità dell’auto aziendale data al dipendente è superiore a 30 giorni, il nominativo deve essere comunicato alla Motorizzazione (questo perché non è intestatario del veicolo). É prevista anche una sanzione amministrativa per chi non comunica il nominativo, pari a 705€, più il ritiro della carta di circolazione.

Se l’auto aziendale non è assegnata per uso privato, allora non è tassata, o è tassata solo parzialmente.

Auto aziendale: acquisto e deducibilità

La deducibilità dell’auto aziendale è stabilita nell’articolo 164 comma 1 lett. b) del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi). L’articolo prevede una doppia limitazione:

  • La deducibilità è ridotta nella misura del 20%
  • È riconosciuto un limite al valore fiscale del mezzo.

Nel caso di acquisto diretto dell’auto aziendale la legge prevede un limite al valore fiscalmente riconosciuto, diverso a seconda della tipologia di auto aziendale:

  • 18.075,99 € per le autovetture e gli autocaravan
  • 4.131,66 € per i motocicli
  • 2.065,82 € per i ciclomotori

Nel primo caso quindi la deducibilità massima per l’auto aziendale è di € 3.615,20.

Auto Aziendale in Leasing: cos’è e come funziona la deducibilità

Il leasing è una forma contrattuale di locazione, nella quale una società concedente, mette a disposizione di un cliente utilizzatore, un bene mobile e/o immobile. Il bene deve essere strumentale all’attività dell’utilizzatore, che dovrà corrispondere un canone periodico per usufruire del bene.

Nel caso di un’auto aziendale, il leasing non può durare meno di 48 mesi, alla fine dei quali l’utilizzatore può esercitare il diritto di riscatto del bene.

In alcuni casi il leasing finanziario comprende anche assicurazione e manutenzione dell’auto. I servizi accessori sono validi per tutta la durata del contratto. L’articolo 102 comma 7 del Tuir prevede le condizioni di deducibilità nel caso di acquisto di un veicolo in leasing.

I contratti in leasing stipulati prima dal 29 aprile 2012 prevedono un canone di competenza annua calcolato in base al coefficiente di ammortamento stabilito per quel determinato bene.

Il canone deducibile è calcolato in base al rapporto tra il costo massimo fiscalmente riconosciuto e il costo di acquisto sostenuto dall’utilizzatore. A questo è poi applicata la percentuale di deducibilità del 20% prevista dalla legge.

Auto aziendale

Auto aziendale e noleggio a lungo termine: caratteristiche e deducibilità

I professionisti e i possessori di partita IVA conoscono molto bene il noleggio a lungo termine. Le aziende e i regolari possessori di partita IVA possono stipulare contratti di noleggio a lungo termine. Oggi però questa possibilità è data anche ai privati, titolari di semplice codice fiscale.

Il noleggio a lungo termine prevede il pagamento di un canone mensile fisso, per un determinato lasso di tempo e per una percorrenza complessiva da effettuarsi con il veicolo. Il canone è una somma stabilita contrattualmente dalle due parti che comprende tutti gli oneri connessi all’uso del veicolo: imposta di circolazione, bollo, assicurazione, Kasko, manutenzione ordinaria compresi cambio pneumatici, ecc… In caso di danneggiamento o guasto dell’autovettura all’utilizzatore deve essere sempre messa a disposizione da parte della società di noleggio, un’autovettura sostitutiva.

Il periodo di noleggio può variare dai 24 ai 48 mesi e le percorrenze possono arrivare anche a 80,000 km. Terminato il periodo prestabilito dal contratto, l’auto aziendale può essere riscattata dall’utilizzatore. Il prezzo è quello prefissato da entrambi le parti.

Da un punto di vista fiscale la legge prevede che i canoni di noleggio siano deducibili entro certi limiti. Il costo del canone del noleggio per le autovetture, sono deducibili fino ad € 3.615,20 con ragguaglio ad anno. Per i contratti “full service” il limite di costo previsto per i canoni di noleggio deve essere considerato al netto dei costi riferibili alle prestazioni accessorie.

Deducibilità e detraibilità: cosa sono e quali sono le principali differenze

Deducibilità e detraibilità sono due termini comuni e consueti, che tutti utilizzano e di cui tutti “conoscono” il significato. Conoscono, o comunque credono di conoscere, perché, per quanto possano essere di facile comprensione, non a tutti e non sempre è chiaro cosa siano e a cosa fanno riferimento. Cerchiamo di chiarire una volta per tutte cosa sono e quali sono le principali differenze. Conoscerle è importante per poter sfruttare entrambi i due diversi aspetti, a favore della propria contabilità.

Deducibilità: cos’è e come funziona

La scienza delle finanze, quando tratta la materia della “tassazione”, definisce un onere deducibile, come un importo che è possibile sottrarre dal reddito complessivo di un soggetto, per ricavare la sua base imponibile (o reddito imponibile). In altre parole gli oneri deducibili sono quelli che devono essere sottratti dal reddito complessivo di un qualunque lavoratore, per trovare il reddito imponibile sul quale poter applicare l’aliquota Irpef. La base imponibile altro non è che l’importo, espresso in denaro, o in termini fisici, su cui è calcolata l’imposta.

Gli oneri deducibili dal reddito imponibile Irpef sono ad esempio:

  1. Contributi previdenziali
  2. Assegni periodici per il mantenimento del coniuge separato o divorziato
  3. Contributo sugli immobili ai consorzi obbligatori per legge
  4. Contributi liberi a favore di:
    • istituzioni religiose
    • organizzazioni non governative
    • organizzazioni non lucrative di utilità sociale
    • associazioni di promozione sociale
    • alcune fondazioni e associazioni riconosciute
  1. Erogazioni liberali a favore di università, enti di ricerca ed enti parco
  2. Rendite, vitalizi, assegni alimentari ed altri oneri
  3. Contributi previdenziali versati a favore dei lavoratori addetti ai servizi domestici.

Detraibilità: cos’è e come funziona

La detraibilità funziona invece diversamente. Opera infatti direttamente sull’imposta Irpef, calcolata in base al reddito imponibile. In generale la detrazione agisce invece riducendo l’imposta lorda. La scienza delle finanze, in materia di tassazione, definisce la detrazione d’imposta come una somma che è possibile sottrarre da un’imposta per ridurne, legalmente, l’ammontare totale. Quindi, altre parole, la deducibilità è applicata alla base imponibile, mentre la deducibilità è applicata direttamente all’imposta applicata. L’imposta così ridotta prende il nome di imposta netta.

Deducibilità

Nel caso dell’imposta Irpef alcune detrazioni sono stabilite in misura fissa. Altre invece sono calcolate in modo forfettario in base alle spese di produzione per alcune specifiche categorie di reddito. Infine altre detrazioni sono calcolate tenendo conto dei familiari a carico del contribuente.

Nell’IVA invece che è applicata ai clienti, è possibile detrarre quella pagata ai fornitori, o ai prestatori di servizi, grazie all’istituto della rivalsa. In altri casi invece l’IVA non può proprio essere detratta e in questo caso diventa allora un costo e basta.

Deducibilità e detraibilità: la differenza fondamentale

Quello che è veramente importante da capire per sfruttare al meglio entrambi questi istituti, è capire la differenza fondamentale che li contraddistingue.

La deducibilità fiscale riduce la base imponibile, vale a dire l’importo sul quale devono poi essere applicate le aliquote per il calcolo delle imposte. La detraibilità invece si ha quando dall’imposta lorda, si sottraggono legalmente importi per ricavare l’imposta netta da applicare alla base imponibile.

In generale le deduzioni fiscali tendono a favorire maggiormente i redditi più alti. Questo perché vanno ad incidere direttamente sul reddito complessivo di un contribuente sul quale poi è calcolata l’imposta finale. Alla luce di tutto questo è quindi perfettamente auspicabile avere una contabilità impeccabile, sia per quanto riguarda gli oneri deducibili, che gli oneri detraibili. Un’amministrazione precisa e consapevole infatti aiuta ad abbattere notevolmente le tasse da versare allo Stato.

Risparmiometro: cos’è, come funziona e a cosa serve

Nel 2019 Agenzia delle Entrate ha introdotto diversi strumenti per combattere l’evasione fiscale. In primis la fatturazione elettronica, seguita a ruota dallo scontrino elettronico e infine dal risparmiometro. Un algoritmo avanzato che controlla conti correnti di contribuenti e imprese, valutando ciascuna situazione fiscale personale.

Risparmiometro: cos’è e quali sono gli obiettivi

Il risparmiometro è uno strumento di Agenzia delle Entrate per combattere l’evasione fiscale. Si tratta di un algoritmo che controlla i conti correnti dei contribuenti e delle imprese e individua eventuali discrepanze tra quanto riportato in dichiarazione dei redditi e quello che è presente sul conto stesso.

L’obiettivo del risparmiometro è quello di riuscire a individuare chi non ha dichiarato tutti i redditi percepiti e chi ha ottenuto compensi al nero (dunque introiti sommersi e non dichiarati al fisco). Lo scopo è quindi riuscire a trovare una corretta collaborazione con le banche per reprimere l’evasione fiscale, piaga dilagante e sempre presente in Italia.

Il risparmiometro è previsto da norma di legge. Per quanto riguarda il redditto d’impresa e di lavoro autonomo, la normativa di riferimento è contenuta nell’art 32 del DPR 600/1973 e 51 del DPR 633/1972. Dal gennaio del 2012 l’Esecutivo ha imposto a Poste Italiane, intermediari finanziari, imprese di investimento, OICR (Organismi di investimento collettivo del risparmio), società di gestione e risparmio, ecc. A comunicare all’anagrafe tributaria le movimentazioni dei rapporti avuti con qualunque soggetto.

Decreto Legislativo 119/2018: più poteri alla Guardia di Finanza

Con il decreto legislativo 119/2018 sono stati attribuiti alla Guardia di Finanza molti più poteri di controllo sui movimenti finanziari dei contribuenti, sulle posizioni fiscali e accesso a molti più dati rispetto al passato. La guardia di Finanza infatti oggi collabora con Agenzia delle Entrate, accedendo al database delle informazioni comunicate all’Anagrafe Tributaria dagli operatori finanziari.

Il Risparmiometro quindi ha messo nelle mani del Fisco e della Guardia di Finanza uno strumento in più per controllare ogni singola operazione, obbligando i contribuenti a tracciare tutte le operazioni eseguite.

In definitiva oggi, la lotta all’evasione fiscale si combatte su due diversi fronti. Da un lato si cerca di limitare l’uso del contante, favorendo pagamenti tracciati e premiando quelli digitale (come ad esempio avviene con la lotteria degli scontrini). Dall’altro si cerca di rendere efficaci i controlli dei movimenti delle masse finanziare, con strumenti come il risparmiometro.

Risparmiometro

Risparmiometro: i dati che vengono comunicati

Banche e intermediari finanziari hanno obbligo di legge di comunicare all’anagrafe tributaria i seguenti dati, ogni qualvolta intraprendono rapporti con qualunque soggetto:

  1. Numero Conto corrente
  2. Conto deposito titoli e/od obbligazioni
  3. Numero Conto deposito a risparmio libero/vincolato
  4. Gestione patrimoniale
  5. Certificati di deposito e buoni fruttiferi
  6. Portafoglio
  7. Conto terzi individuale/globale
  8. Dopo incasso
  9. Cessione indisponibile
  10. Cassette di sicurezza
  11. Depositi chiusi
  12. Acquisto e vendita di oro e metalli preziosi
  13. Operazione Extra-conto
  14. Contratti derivati
  15. Carte di credito/debito
  16. Garanzie
  17. Crediti
  18. Finanziamenti
  19. Fondi pensione
  20. Rapporti fiduciario ex legge n. 1966/1939
  21. Gestione collettiva del risparmio
  22. Patto compensativo
  23. Finanziamento in pool
  24. Partecipazione
  25. Prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione
  26. Altri rapporti

Quando sono comunicati dati

La periodicità di comunicazione dei dati può essere mensile, oppure annuale. È mensile, ad esempio, per i rapporti finanziari e le operazioni extra-conto comprensive del codice identificativo, oppure per quanto riguarda i dati anagrafici dei vari soggetti.

Sono annuali invece per i dati relativi all’identificazione del rapporto, o dei vari saldi (compreso quello iniziale alla data di apertura), i dati relativi agli importi totali, alla giacenza media annua, ecc…

I dati così comunicati sono utilizzati dall’Agenzia delle Entrate, dalla GdF, dagli Agenti della Riscossione, dall’ Autorità Giudiziaria, dall’Ufficio Italiano cambi, dal Ministero dell’interno, dagli esperti del Servizio consultivo e Ispettivo tributario.

Imprese e attività di lavoro autonomo

Visto scopo e funzionamento dello spesometro, per le imprese e le attività di lavoro autonomo (individuali o collettive che siano) è molto importate prestare attenzione ai conti diversi da quelli dell’impresa.

Sarebbe opportuno infatti che eventuali movimenti in entrata su conti estranei all’attività, avvenissero esclusivamente tramite bonifico e in maniera tracciata. Se così non venisse fatto, l’Amministrazione Finanziaria potrebbe infatti sospettare che tali versamenti potrebbero arrivare da attività non dichiarate.

Evasione fiscale: un fenomeno dilagante

Se ne sente tanto parlare, ma non tutti sanno effettivamente cosa sia e come viene compiuta. In Italia il fenomeno dell’evasione fiscale, negli ultimi decenni si è paurosamente aggravato. I vari Governi hanno cercato di arginare il problema, ma non sempre sono riusciti a risolverlo o per lo meno a ridurlo. Uno spiraglio di luce in fondo al tunnel si è avvistato con le manovre che mirano alla dematerializzazione e digitalizzazione dei processi di gestione dei documenti fiscali e dei dati.

Ne sono un esempio lo scontrino elettronico, l’introduzione della fatturazione elettronica e, dal primo gennaio 2021, l’entrata in vigore della Lotteria degli Scontrini.

Evasione Fiscale: cos’è e come funziona

Per evasione fiscale, in ambito di scienza delle finanze, si intende l’insieme dei metodi adottati per ridurre o eliminare del tutto il prelievo fiscale da parte dello Stato sul cittadino. L’Italia purtroppo in quest’ambito vanta un triste primato. È lo stato europeo con la più alta percentuale di evasione fiscale. Recenti stime dimostrano che l’evasione fiscale in Italia è pari a 300 miliardi di euro l’anno, evasione riconducibile a imposte dirette, al lavoro al “nero” e all’economia sommersa (vale a dire l’insieme di tutte le attività economiche che contribuiscono al prodotto interno lordo, ma che non sono registrate e dunque regolarmente tassate).

Sul podio comunque non si trova da sola, ma in buona compagnia. Seguita a ruota da Germania e Francia, combatte una guerra dura da ormai svariati anni. L’evasione fiscale si manifesta attraverso la violazione di specifiche norme fiscali.

L’evasione fiscale in termini giuridici non può essere considerata un furto. Questo perché ha a oggetto somme di denaro che, in assenza dell’evasore, non esisterebbero. Nonostante questo però l’evasione tende a ledere il tessuto socio-economico di un paese perché fa diminuire il gettito fiscale statale. Il gettito fiscale, cioè l’insieme delle entrate nell’erario di uno Stato, serve a fornire ai cittadini i servizi necessari. Servizi che non possono essere forniti se manca il gettito fiscale perché gli evasori non pagano le tasse.

Come avviene l’evasione fiscale

Ci sono vari metodi per evadere il fisco. Quello più noto è non emettere regolare fattura, ricevuta fiscale o scontrino elettronico per operazioni di vendita di beni e servizi. É considerata evasione fiscale anche quando è emessa regolare fattura, ma per importo parziale rispetto a quello realmente sostenuto.

Anche redigere dichiarazioni dei redditi false, equivale a evadere il fisco. Tutte le informazioni mancanti, parziali, o infedeli portano a un successivo mancato versamento dell’imposta realmente dovuta. Le tipologie di evasione continuano e le ritroviamo anche in ambito di lavoro regolarmente concettualizzato. Quando a un dipendente parte dello stipendio è somministrato in forma non documentata, si parla sempre di evasione fiscale.

Evasione Fiscale

Le alterazioni del cedolino paga (ad esempio quando sono indicate false trasferte e/o richieste di rimborsi non dovuti) sono considerate evasione fiscale, tanto quando accordarsi segretamente per evitare l’esposizione in fattura del dovuto (anche alterandone le voci).

Infine la più classica delle evasioni fiscali: non pagare imposte e tributi e non eseguire adempimenti obbligatori (come ad esempio pagare il canone RAI, oppure apporre la dovuta marca da bollo, o evitare di pagare il bollo auto).

Elusione fiscale: cos’è e come funziona

Quando tributi e tasse non sono pagati, ma senza violare la legge, si parla di elusione fiscale. In altre parole la legittimità formale delle norme è rispettata, ma il fine rimane sempre lo stesso. Questo è il caso in cui i contribuenti che “non contribuiscono” lo fanno andando a sfruttare le carenze dell’ordinamento giuridico. In questo modo riescono a non pagare tributi e tasse senza violare la legge e, di conseguenza, senza essere assoggettati a sanzioni da parte delle autorità.

L’elusione fiscale è normata dal DPR n° 600/1973 articolo 37-bis che sancisce l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di atti, fatti e negozi, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. Tramite questa norma la pubblica amministra “disconosce” i vantaggi tributari che vengono conseguiti attraverso l’elusione delle disposizioni relative alle imposte.

Conclusioni

Alla fine che si tratti di evasione fiscale vera e propria, piuttosto che di elusione fiscale, lo scopo rimane sempre lo stesso: evitare di pagare tasse e contributi, o quanto meno di ridurne la pressione. In ogni caso l’Esecutivo ha cercato di ridurre il fenomeno attraverso una serie di manovre volte alla digitalizzazione del sistema fiscale, introducendo sistemi come lo scontrino elettronico, la Lotteria degli scontrini e l’ormai nota, fattura elettronica.

Credito di imposta: cos’è e come utilizzarlo

Il credito di imposta è un argomento molto attuale, vista la realtà che la diffusione del Coronavirus ha creato in Italia e nel mondo. Il Decreto Rilancio , approvato dall’Esecutivo lo scorso 13 maggio, ha rinforzato ulteriormente il concetto di credito di imposta. Per spiegarlo in modo semplice, basta dire che il credito di imposta altro non è che un credito di natura tributaria che un qualunque soggetto, vanta nei confronti dello Stato.

Nello specifico il contribuente è titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva nei confronti dell’ente impositore. In altre parole il contribuente ha un credito, di una certa somma, da riscuotere, da parte dell’Erario.

Credito di imposta: quando i contribuenti vantano una somma nei confronti dello stato

Esistono tre diversi casi nei quali è previsto che il contribuente possa esigere un credito di imposta dall’Erario.

Il primo caso si verifica quando sono stati prelevati e/o versati importi superiori al reale debito fiscale. Questo avviene ad esempio quando sono versati acconti IRPEF superiori al debito fiscale risultante dal 730. In questo caso la dichiarazione dei redditi chiuderà con un credito di imposta “rimborsabile” da parte dell’utente.

Il secondo caso invece si presenta in automatico all’operare di determinati meccanismi tributari indispensabili affinché specifiche imposte, possano funzionare. É il caso questo del meccanismo della rivalsa e detrazione dell’IVA (Imposta Valore Aggiunto).

Il terzo e ultimo caso si verifica quando sono previste determinate agevolazioni, erogabili appunto sotto forma di credito di imposta.

Credito di imposta

Come si concretizza il credito di imposta

Si concretizza in due modi diversi:

  1. rimborso
  2. compensazione

Nel rimborso il credito di imposta è scomputato direttamente in dichiarazione dei redditi, sottraendo al debito annuale il relativo credito.

Nella compensazione invece il credito si concretizza bilanciando la differenza. Questa avviene a favore di tutti i contribuenti che hanno la possibilità di compensare i tributi a debito con il suddetto credito d’imposta.

Credito d’imposta e modello F24

L’ultima casistica precedente, quella che prevede la compensazione, trova forma grazie all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997 n°24. I soggetti che possono avvalersi della compensazione sono:

  • persone fisiche titolari di partita IVA
  • persone fisiche non titolari di partita IVA
  • società di persone
  • società di capitali

In questi casi la compensazione avviene utilizzando il modello F24. Quest’ultimo è un documento utilizzato in Italia per pagare gran parte delle imposte, delle tasse e dei contributi previsti. Per ciascun tributo, esiste uno specifico modello F24 (IRAP, IMU, TASI, TARI, diritti camerali, Imposte sostitutive delle imposte sui redditi e dell’Iva, Contributi e premi INPS, INAIL, ENPALS, INPDAI, INPDAP, ecc…)

Per quando riguarda nello specifico il credito di imposta, questo è indicato nella colonna degli “importi a credito”. É indicato quindi l’ammontare che lo Stato deve al contribuente, oltre al periodo e al codice tributo al quale si riferisce.

Il credito d’imposta si utilizza fino a quando non si esaurisce il dovuto. Il credito eccedente è utilizzato per i successivi versamenti (nulla va perduto o arrotondato). La compensazione tramite F24 presentata tramite intermediario abilitato, oppure tramite cassetto fiscale.

Tipologie e caratteristiche

Con il DL Cura Italia e il DL Rilancio, sono stati introdotte molte nuove tipologie di credito d’imposta e ne sono state modificate altrettante. Ad esempio sono stati introdotti i nuovi crediti d’imposta per:

  • spese di sanificazione (pari al 60% delle spese di sanificazione per un massimale di 60,000€)
  • per botteghe e negozi (60% del canone di locazione per i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno 2020)
  • adeguamento degli ambienti di lavoro (60% sugli interventi necessari all’adeguamento degli ambienti di lavoro)
  • per bonus vacanze (massimo 500€ a nucleo familiare con reddito ISEE non superiore a 40,000€)
  • per investimenti pubblicitari (50% degli investimenti per stampa quotidiana e periodica, online emittenti televisive e radiofoniche)
  • servizi digitali
  • attività di ricerca e sviluppo nelle aree del Mezzogiorno
  • aumenti di capitale (pari al 20% per chi sottoscrive aumento di capitale sociale a seguito di perdite derivanti dall’emergenza epidemiologica COVID-19)
  • sugli investimenti (introdotti dalla legge Bilancio)
  • Ace (introdotti dalla Legge di Bilancio)

Agenzia delle entrate e riscossione: cos’è e come funziona

Equitalia era una società italiana incaricata alla riscossione dei tributi su tutto il territorio nazionale, ad eccezione della Sicilia. A questa società partecipavano Agenzia delle Entrate (con una quota pari al 51%) e l’INPS (quota pari al 49%). Dal primo luglio 2017, Equitalia non esiste più. L’unica società del gruppo che è ancora attiva è Equitalia Giustizia. Il gruppo è stato sostituito da Agenzia delle entrate e riscossione. Si tratta di un ente pubblico economico strumentale dell’Agenzia delle Entrate che, per semplificare, possiamo dire che oggi gestisce le vecchie cartelle Equitalia.

Decreto legge n. 193/2016

A partire dal 30 giugno 2017 il gruppo Equitalia non esiste più. Al suo posto oggi, abbiamo Agenzia delle Entrate e Riscossione (Aer). Questa è subentrata nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche di natura processuale, grazie al decreto legislativo n° 193/2016.

Aer è diventata pertanto agente di riscossione. Il suo ruolo è quello di occuparsi dell’attività di esazione a livello nazionale, a eccezione sempre della regione Sicilia. Nel decreto sono specificate le varie funzioni necessarie a svolgere le attività di riscossione.

Il personale in servizio dell’Equitalia, al momento del trasferimento, ha mantenuto la propria posizione giuridica, economica e previdenziale. Prima però i dipendenti sono stati controllati per verificare che “… La ricognizione delle competenze possedute, ai fini di una collocazione organizzativa coerente e funzionale alle esigenze dello stesso ente.”

Agenzia delle entrate e riscossione: struttura e organizzazione

Agenzia delle entrate e riscossione è composta da:

  1. Presidente (che corrisponde al Direttore dell’Agenzia delle Entrate)
  2. Comitato di gestione
  3. Collegio dei revisori dei conti (il cui Presidente è scelto tra i magistrati della Corte dei Conti).

Il presidente di Aer oltre a essere il Direttore dell’Agenzia delle Entrate è anche il soggetto che compone il Comitato di gestione. Si tratta di cariche gratuite che non prevedono rimborsi spese, compensi o indennità.

Agenzia delle Entrate e Riscossioni è direttamente controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Si tratta, come abbiamo già specificato, di un organismo strumentale di Agenzia delle Entrate, che rimane titolare della riscossione nazionale.

Agenzia delle entrate e riscossione

Qual è lo scopo di Agenzia delle entrate e riscossione

Questo organismo è stato creato per migliorare e facilitare i processi di riscossione a livello nazionale. Aer è stato composto pensando a soddisfare le esigenze di economicità di gestione della riscossione in tutto il paese. Inoltre, rispetto alla vecchia Equitalia, è stata posta maggiore attenzione alla soddisfazione dei soggetti che si avvalgono dei suoi servizi. Con Aer è stato auspicato un aumento degli importi riscossi, una maggiore incentivazione alle azioni di prevenzione e di contrasto all’evasione fiscale. Questo organo, assieme alla fatturazione elettronica e allo scontrino elettronico è uno dei tanti strumenti adottati per combattere la dilagante piaga dell’evasione fiscale in Italia.

Agenzia delle entrate e riscossione: cosa può fare

Dal primo ottobre 2011 gli avvisi di accertamento emessi da Agenzia delle Entrate, ai fini delle imposte sui redditi, IVA e IRAP, sono “esecutivi”. Questo perché contengono l’intimazione ad adempiere al pagamento degli importi indicati, nei termini previsti. Questi avvisi di accertamento diventano esecutivi trascorsi 30 giorni, periodo messo a disposizione per presentare eventuale ricorso.

Aer informa l’utente con raccomandata semplice o con posta elettronica, di aver preso in carico la riscossione delle somme. L’esecuzione forzata è comunque sospesa per un periodo di 180 giorni dalla data di tale affidamento. Questa sospensione non vale nel caso di accertamenti definitivi e nel caso di recupero di somme derivanti da decadenza dalla rateizzazione.

Allo stesso modo, dal primo gennaio 2011, avvengono gli avvisi di addebiti notificati dall’INPS. Gli avvisi hanno quindi valore di titolo esecutivo per la riscossione che sostituisce in tutto e per tutto la classica vecchia cartella di pagamento.

Cos’è l’iscrizione a ruolo

Si tratta dell’inserimento di un contribuente nell’elenco dei debitori, creato dall’ente creditore (Agenzia delle Entrate, INPS, comuni, ecc…). Sono iscritti a ruolo i soggetti intimati da Aer al pagamento di tributi, altre entrate, sanzioni e interessi. Con questa iscrizione l’ente incarica l’agente di riscossione (agenzia delle entrate e riscossione) a richiedere il pagamento di quanto dovuto. Questa operazione avviene attraverso l’invio della cartella di pagamento o, in fase di riscossione volontaria, di un avviso di pagamento.

La cartella di pagamento è notificata dal messo notificatore.

INPS iscrizione gestione separata: cos’è, come funziona e quando iscriversi

La Gestione Separata è un fondo pensionistico dell’INPS, finanziato con i contributi previdenziali obbligatori dei lavoratori. Il sistema pensionistico ha visto la nascita dell’iscrizione gestione separata nel 1995, grazie alla legge 335. La riforma è stata prevista per garantire ed erogare le assicurazioni sociali obbligatorie per i lavoratori atipici. In passato infatti esistevano delle categorie escluse dal piano pensionistico nazionale. Solo dopo la riforma del sistema pensionistico pubblico Dini, i lavoratori atipici, autonomi con partita IVA o parasubordinati, hanno avuto garanzia di pensione. Queste categorie infatti erano state escluse fino a quel momento, ma grazie a un intervento, articolato su tre diversi fronti, hanno avuto anche loro una certa garanzia pensionistica.

INPS iscrizione gestione separata: cos’è e come è stata resa possibile

L’iscrizione gestione separata è quindi un fondo pensionistico previsto per tutte quelle categorie escluse fino al 1995/96. Categorie alle quali è stata assicurata una previdenza assistenziale derivante dalla raccolta di tutti i contributi previdenziali dei liberi professionisti.

Tra i tanti vantaggi introdotti dalla riforma degli anni ‘90, ai lavoratori è stata assicurata l’assistenza per invalidità, la pensione anticipata e supplementare, la pensione di vecchiaia e la pensione indiretta.

INPS iscrizione gestione separata

La riforma ha agito in tre diverse modi:

  • ha disposto la costituzione di nuovi fondi previdenziali (grazie al Decreto Legislativo n°103 del 10/02/1996);
  • sono aggregate diverse categorie di lavoratori e professionisti a casse previdenziali già esistenti;
  • È costituita l’iscrizione alla Gestione Separata (art.2 comma 26) (tutti i liberi professionisti, la quasi totalità delle forme di collaborazione coordinata e continuativa, la categoria dei venditori a domicilio, ecc…).

INPS iscrizione gestione separata: i soggetti obbligati

Esistono casi in cui l’iscrizione alla gestione separata risulta essere obbligatoria. Questa può avvenire anche in via telematica oggi, accedendo, ad esempio, al sito ufficiale dell’INPS, oppure telefonicamente, chiamando l’istituto.

L’iscrizione è obbligatoria per:

  1. Freelance senza una specifica cassa previdenziale
  2. lavoratori autonomi occasionali
  3. collaboratori coordinati e continuativi
  4. beneficiari di borse di studio a sostegno della mobilità internazionale degli studenti
  5. beneficiari di degli assegni per attività di tutorato, didattico-integrative, propedeutiche e di recupero
  6. assegnisti di ricerca
  7. associati in partecipazione
  8. amministratori locali
  9. spedizionieri doganali non dipendenti
  10. medici che si stanno formando (formazione specialistica)
  11. i Volontari del Servizio Civile Nazionale (avviati dal 2006 al 2008)

I soggetti che devono versare i contributi

In alcuni casi i contributi previdenziali destinati ad alimentare la gestione separata, devono essere versati dagli stessi lavoratori autonomi e in altri casi dai committenti. I liberi professionisti che emettono fattura elettronica devono provvedere al versamento dei contributi autonomamente. Il versamento avviene attraverso modello f24.

I collaboratori oggi rientrano nella categoria dei lavoratori dipendenti. Di conseguenza questo significa che il pagamento dei contributi avviene per 1/3 a carico del collaboratore e per i restanti 2/3 a carico del committente del lavoro stesso. Il calcolo è fatto in base alla percentuale delle somme e ai valori percepiti a qualunque titolo dagli assicurati (anche sotto forma di erogazioni liberali).

Infine, per i lavoratori occasionali, è il datore di lavoro che versa le somme all’INPS.

INPS iscrizione gestione separata: come avviene la registrazione

L’iscrizione avviene sempre e comunque in concomitanza del primo rapporto di lavoro, senza bisogno che si ripeta per tutti quelli successivi. Quindi è possibile iscriversi:

  • via web attraverso i servizi telematici (è necessario in questo caso un PIN dispositivo rilasciato dallo stesso sistema INPS);
  • attraverso contact center (quindi chiamando semplicemente l’Istituto di previdenza sociale);
  • Interpellando i vari patronati.

A cosa da diritto la Gestione Separata

Questa garantisce ai propri iscritti:

  • Pensioni (calcolate con il sistema contributivo);
  • Indennità di disoccupazione DIS-COLL;
  • Assegno per il nucleo familiare;
  • Indennità di malattia per degenza ospedaliera;
  • malattia;
  • maternità.

Contributo a Fondo Perduto: il più ambito finanziamento per le PMI

Le PMI sono sempre in cerca di finanziamenti per ampliare, migliorare e consolidare la propria realtà. Che si tratti di una società avviata, piuttosto che una start up innovativa, riuscire a trovare finanziamenti è molto importante. Per accedere a bandi e incentivi nazionali, regionali e/o europei è necessario seguire determinate procedure. Non tutti i fondi si richiedono con lo stesso iter e soprattutto sono erogati con diverse modalità. Il contributo a fondo perduto, ad esempio, è uno dei più ambiti dalle imprese e permette di acquistare prodotti, servizi e beni, senza dover poi preoccuparsi di pagare interessi sui prestiti e i mutui ricevuti.

Contributo a Fondo Perduto: cos’è e come funzionano

Il contributo a fondo perduto è un’agevolazione erogata dall’ente pubblico all’azienda, che non prevede alcun tipo di rimborso. In altre parole l’ente erogatore (che può essere la Regione, la Camera di Commercio, il Ministero, ecc…) elargisce un importo in denaro, senza chiedere nulla in cambio. Si tratta quindi di una sorta di aiuto economico che viene dato alle piccole/medie imprese per comprare beni/servizi necessari alla crescita, allo sviluppo e alla digitalizzazione dell’attività.

Contributo a fondo perduto: il calcolo

Nel contributo a fondo perduto è solitamente fissato un tetto massimo di importo erogabile, che non può essere superato. Il calcolo per determinare l’importo erogabile si base sul totale delle spese ammissibili al bando stesso.

Difficilmente questa tipologia di contributo copre il 100% delle spese presentate dall’azienda. Solitamente la copertura va da un 40% all’80%. Quello che rimane è a carico della società che ha richiesto il contributo. La società in questo caso deve essere in grado di dimostrare di poter coprire tutte le rimanenti spese, con i propri capitali (prestati o già in possesso). Analogo al contributo a fondo perduto è il contributo in conto capitale.

Una specifica molto importante. In Italia, il contributo a fondo perduto, non è soggetto a IVA (imposta valore aggiunto), anche in caso di erogazioni condizionate.

Condizioni e restrizioni

Gli interventi a fondo perduto sono solitamente soggetti a determinate condizioni stabilite dall’ente erogante. Queste, ad esempio, possono includere:

  • indicazioni sugli interventi possibili
  • prescrizione di determinati utilizzi del capitale concesso
  • facoltà di controllo e verifica dell’utilizzo del capitale erogatore

L’ente può inoltre stabilire di poter annullare l’intervento, oppure richiedere addirittura la restituzione del capitale in caso di utilizzi diversi da quelli oggetto della condizione.

Contributo a Fondo Perduto

Alternative al contributo a fondo perduto

Le agevolazioni a fondo perduto non sono le uniche alle quali le PMI possono accedere. Le Regioni ad esempio utilizzano molto “il finanziamento agevolato”. In questo caso l’ente pubblico eroga l’agevolazione prevista, ma la società deve pagare un piccolo interesse, che solitamente si aggira attorno allo 0,5% (in alcuni casi è addirittura inferiore).

In altre parole l’ente pubblico eroga una determinata somma di denaro, per permettere alla PMI di acquistare beni/servizi, attraverso un finanziamento che prevede un tasso agevolato inferiore a quello di mercato. A differenza del contributo a fondo perduto, il finanziamento agevolato copre tutte (o quasi)le spese presentate dall’azienda e ammissibili al bando.

Il vantaggio per una società nel richiedere un finanziamento agevolato è nella differenza degli interessi da pagare. Il tasso applicato, solitamente, è compreso tra lo 0% e lo 0,5%. Un bando che usa soprattutto la forma di finanziamento agevolato, è il fondo rotativo.

Contributo in conto interessi: cos’è e come funziona

Alternativa al contributo a fondo perduto, quello in conto interessi è una forma agevolata di incentivo che copre solamente la quota interessi che un’azienda paga su un mutuo o un prestito. In questo caso l’importo erogabile non è calcolato sulla base del valore del bene/servizio acquistato, ma sull’ammontare degli interessi passivi pagati sul prestito.

Si tratta di una forma molto particolare di agevolazione che risulta particolarmente vantaggiosa per tutte le imprese che hanno acceso un mutuo o un prestito elevato.

Credito d’imposta

Altra forma di agevolazione riconosciuta alle PMI. Lo Stato centrale e le amministrazioni territoriali o locali, sono solite utilizzare questa forma di agevolazione per aiutare le imprese. Il credito d’imposta non è un finanziamento. Si tratta infatti di acquisire o generare un credito che permette di pagare meno tasse o contributi. Il credito d’imposta può essere destinato a compensare debiti, diminuire le imposte, oppure a chiederne il rimborso (quando ammesso) in sede di dichiarazione dei redditi.

Aprire una partita IVA: procedura e costi da sostenere

L’apertura di una nuova attività prevede una serie di regole da rispettare e vari elementi da valutare. Aprire una partita IVA richiede impegno economico e un calcolo preciso di tutti i vantaggi e gli svantaggi a cui potrebbe portare. L’apertura in se per se non è molto difficile, ma richiede qualche passaggio che deve essere seguito alla lettera. Decidere di “mettersi in proprio” e non essere un dipendente a stipendio fisso mensile però, comporta delle responsabilità alle quali non è possibile sottrarsi. Obblighi previdenziali e regolari tasse da pagare. Vediamo quindi come fare per aprire una partita IVA, chi può farlo, quanto costa e quali sono le spese da sostenere.

Aprire una partita IVA: i passaggi da seguire

La partita IVA è una sequenza di 11 cifre che identifica, in modo inequivocabile, un soggetto che esercita un’attività. La partita IVA è importante ai fini dell’imposizione fiscale diretta (IVA). La partita IVA è composta da una sigla dello stato di appartenenza (nel caso dell’Italia corrisponde a IT), le prime 7 cifre indicano invece il contribuente, i 3 numeri seguenti indicano il Codice dell’Ufficio delle Entrate e, infine, l’ultimo numero ha carattere di controllo.

In Italia la partita IVA è rilasciata dall’Agenzia delle Entrate (AdE). Il numero assegnato rimane invariato per tutto il periodo in cui è svolta l’attività e vale sull’intero territorio nazionale.

La partita IVA si apre inoltrando richiesta telematica ad AdE, utilizzando due diversi modelli:

  1. modello AA9/11 per le ditte individuali
  2. modello AA7/10 per le società

Entrambi i modelli sono presenti e scaricabili sul sito di Agenzia delle Entrate. Il modello può essere presentato direttamente presso l’ufficio AdE territorialmente competente, oppure inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno o, infine, per via telematica, utilizzando il software sul sito AdE.

La comunicazione ad AdE deve essere fatta entro 30 giorni dal primo giorno di inizio attività.

Codice ATECO, regime contabile ed INPS

Al momento in cui si decide di aprire una partita IVA, deve essere scelto il codice ATECO. Come abbiamo visto nell’articolo: “Codice Ateco cos’è a cosa serve e dove trovare quello di appartenenza”, il codice ATECO rappresenta la Classificazione delle attività economiche ed è una tipologia di classificazione adottata dall’Istituto Nazionale di Statistica italiano (ISTAT). Serve per le rivelazioni statistiche nazionali di carattere economico.

Inoltre l’apertura della partita IVA comporta anche la scelta del relativo regime contabile: regime forfettario, regime dei minimi o regime ordinario.

Come ultimo step al quale adempiere, non rimane che l’INPS. É necessario recarsi presso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale per comunicare la propria posizione previdenziale. In alcuni casi, ad esempio per le ditte individuali la dove è richiesto, è necessario anche iscriversi alla Camera di commercio (dipende comunque dall’attività svolta) e comunicare al comune di appartenenza l’avvio dell’attività.

I soggetti che possono aprire partita IVA

In linea generale chiunque. Nello specifico diciamo che lavoratori autonomi, professionisti e titolari di società, sono tenuti ad aprire una partita IVA.

Quanto costa aprire una partita iva

Veniamo ai costi, la parte, forse, più importante. Aprire una partita IVA non costa nulla. Mantenerla invece si. Tutto dipende dal regime contabile scelto.
In regime di contabilità ordinaria, chi apre partita IVA e deve registrare l’attività presso la Camera di Commercio, deve pagare alla stessa circa € 80-100/annui. A questo costo dovrà essere aggiunto l’importo da corrispondere all’eventuale commercialista, nonché i contributi INPS. Infine sono da considerare anche il pagamento delle imposte IRPEF e IRAP, calcolate sul reddito e sul valore aggiunto.

Chi invece appartiene al regime forfettario, godrà di qualche agevolazione in più. Questo regime, come abbiamo già visto, prevede l’esenzione IVA e una tassazione ad aliquote molto ridotte per l’IRPEF (pari al 15% e al 5% per i primi cinque anni di attività). Da tenere comunque in considerazione che nel forfettario non è possibile portare in detrazione le spese sostenute (unica eccezione i contributi previdenziali obbligatori).

Il consiglio generale è di evitare di aprire una partita IVA con introiti annui al di sotto di € 5000.

Aprire una partita iva: la procedura da seguire e i costi da sostenere

Mantenere una partita IVA: i costi

Aprirla è gratis, ma mantenerla costa. Tutto dipende dal regime scelto e dal tipo di attività svolta. Quando si apre un’attività nel calcolo dei costi da sostenere per il suo mantenimento troviamo:

Obblighi fiscali

Chi apre una partita iva ricordiamo che dovrà anche adempiere a precisi obblighi fiscali, tra i quali:

Il regime dei minimi: cos’è e come funziona

L’articolo: “Regime forfettario: limiti ricavi e fatture elettroniche” ha spiegato nel dettaglio cos’è e come funziona il regime forfettario. Questo particolare regime fiscale non è l’unico esistente nel sistema fiscale italiano, che preveda delle agevolazioni per i contribuenti. Oggi infatti vogliamo parlarvi di un altro regime in vigore dal 1° gennaio 2008 e introdotto dalla Legge 21/12/2007 n° 244 art. 1 comma 96-117. Il regime dei minimi è stato creato con l’intento di abbattere i costi amministrativi e introdurre un regime semplice e vantaggioso. Vediamo come funziona.

Il regime dei minimi: requisiti soggettivi

Non tutti i soggetti possono accedere al regime agevolato dei minimi. Per farlo devono essere rispettati determinati requisiti soggettivi. Al regime possono acceder imprese individuali e professionisti che:

  • presumono di avere un volume di ricavi entro il limite dei trentamila euro annui;
  • non hanno effettuato cessioni all’esportazione;
  • non hanno dipendenti o collaboratori;
  • non hanno erogato utili ad associati in partecipazione con apporto di solo lavoro;
  • non hanno acquistato nel triennio precedente beni strumentali per un importo superiore a quindicimila euro.

Quindi il regime dei minimi può essere richiesto dalle persone fisiche residenti in Italia che non superano € 30,000/annui. Non devono avere dipendenti o collaboratori, né spese per beni strutturali (cioè necessari alla professione, come ad esempio affitti, computer, ecc…) superiori a € 15,000. Inoltre non devono vendere all’estero e non distribuiscono utili soci.

Il limite di € 30,000 è riferito ai compensi, cioè i ricavi, non il reddito (vale a dire ricavi-spese).

I beni strumentali

Abbiamo detto che uno dei requisiti per accedere al regime dei minimi è quello di non avere spese per beni strutturali superiori a € 15,000/annui. Per beni strumenti si intendono:

  • i beni utilizzati sia per l’attività che ad uso personale si considerano in misura pari alla metà del relativo corrispettivo;
  • i canoni di locazione o noleggio;
  • non rilevano i beni in comodato d’uso.

Chi è escluso dal regime dei minimi

Per esclusione in base al paragrafo precedente, da questo sistema fiscale, sono esclusi:

  • i non residenti;
  • chi operi in attività a regime speciale Iva quali editoria, agricoltura, agenzie di viaggi o simili;
  • coloro che partecipano in società di persone, associazioni tra professionisti, o società a responsabilità limitata in regime di trasparenza fiscale;
  • chi effettua attività di cessione di immobili ovvero mezzi di trasporto nuovi.

I vantaggi del regime dei Minimi

Il regime dei minimi prevede tutta una serie precisa di agevolazioni. Prima fra tutte l’IRPEF secca al 20%, come imposta sostitutiva della normale tassazione ad aliquote progressive.

Oltre a questa è prevista anche un’esenzione dall’IVA, l’imposta sul valore aggiunto, che non deve essere inserita nella fattura elettronica o normale, né versata al fisco.

Ci anche altre semplificazioni burocratiche, come ad esempio l’esonero dall’obbligo delle scritture contabili e degli elenchi clienti e fornitori, nonché della comunicazione annuale IVA. Per il fisco è sufficiente numerare progressivamente le fatture e conservarle. Questo vale anche per le fatture di acquisto per le spese da detrarre.

Sulle fatture elettroniche e normali deve essere riportata la seguente dicitura:

“Operazione ai sensi dell’art. 1, comma 100, della Legge finanziaria 2008”.

Un regime che non conviene a tutti

Visti i vantaggi, passiamo agli svantaggi. Questo regime è conveniente, ma non per tutti. Ad esempio il tetto massimo stanziato ad € 30,000 è abbastanza basso, ed è facile superare la soglia.

Quando e se questo dovesse avvenire può accadere che:

  • se si supera il tetto di meno del 50% (cioè fino a 45.000 euro di compensi) si perde l’agevolazione l’anno successivo;
  • se si supera il tetto di oltre il 50% (cioè oltre 45.000 euro) il regime agevolato cessa nell’anno in corso e il contribuente deve rimanere nel regime ordinario per almeno 3 anni.

Il regime dei minimi

Inoltre, sarà dovuta l’IVA sulle operazioni dell’intero anno di superamento del limite.

Ancora peggio è superare il tetto e non dichiararlo, perché in questo caso scattano pure le sanzioni. Sanzioni piuttosto salate, aumentate del 10% se il maggior reddito accertato supera quello dichiarato di almeno il 10%.

Prima di accettare e inserirsi in questo regime è bene calcolare bene la propria effettiva convenienza. Alle volte la tassazione ordinaria potrebbe essere addirittura più conveniente, perché consente le detrazioni d’imposta, mentre il regime dei minimi no.

A chi conviene di più il regime dei minimi

Questo sistema fiscale conviene soprattutto a chi ha poche detrazioni e pochi costi da sostenere e scaricare. A chi ha anche altri redditi (per esempio come lavoratore dipendente) e tiene separate le tassazioni evitando l’aumento dell’aliquota progressiva. Ed infine conviene a chi ha clienti privati, non interessati a scaricare l’iva, che non si ritrovano sulle fatture elettroniche.

Ultima cosa da considerare: i contributi previdenziali. Questi ammontano a circa il 26,72% e restano a carico del lavoratore, come comunque già succede per tutte le altre partite IVA.