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Vendita cannabis light online: come funziona la fatturazione e la disciplina fiscale

La vendita cannabis light online si sta imponendo come uno dei business più interessanti del commercio elettronico in questi anni. Diversi studi di settore confermano infatti la crescita esponenziale di questo mercato.

Stando a una ricerca condotta nel 2021 da Cross-Border Growth Capital, il giro d’affari legato alla vendita online di cannabis light in Europa ha raggiunto un volume di 880 milioni di euro nel corso del 2020. Un aumento del 220% rispetto all’anno precedente. Anche in Italia si registrano trend analoghi: secondo i dati forniti dall’Osservatorio sul mercato della canapa industriale di Luiss Business School, nel nostro Paese il mercato della Vendita cannabis light online valeva circa 50 milioni di euro nel 2019, con prospettive di raddoppio entro il 2024.

Tali cifre dimostrano come questo settore, legale e regolamentato, stia diventando una vera e propria industria in forte crescita. Proprio per tale motivo, risulta fondamentale per chi intende avviare un’attività in tale ambito conoscere a fondo la normativa fiscale applicabile. Solo un corretto inquadramento contabile e tributario può infatti consentire di massimizzare i profitti e gestire al meglio la propria impresa. Soprattutto nel commercio digitale, dove la concorrenza è ormai globale, risulta vitale adottare il regime fiscale migliore per posizionarsi strategicamente sul mercato.

Vendita cannabis light online: il giusto Regime IVA per la vendita online di prodotti derivati

La vendita online di cannabis light è quindi certamente un settore in evoluzione, soggetto a normative in fase di chiarimento.

Vendita cannabis light online è attualmente possibile in molti Paesi, sebbene alcuni prodotti derivati dalla canapa siano soggetti a regolamentazioni doganali e imposizione IVA. In Italia, la Legge n.242/2016 e i successivi chiarimenti ministeriali consentono la commercializzazione di infiorescenze e altri derivati della canapa sativa contenenti un tasso di THC inferiore allo 0,5%, esenti da obblighi in materia di sostanze stupefacenti.

Alla luce di un business così fiorente, sono in tanti a chiedersi quindi cosa vendere online per avere successo e se il commercio elettronico deve quindi comprendere anche la marijuana light. Una domanda cui non esiste una risposta univoca, poiché fattori come la competitività di mercato, la qualità dell’offerta e la capacità di fidelizzare i clienti sono determinanti. Nel caso specifico della cannabis light, alcuni produttori hanno ottenuto risultati commerciali lusinghieri proponendo infiorescenze, oli, resine, creme e altri articoli per uso wellness e rilassamento, grazie a una comunicazione trasparente e rispettosa delle normative.

Vendita cannabis light online

In merito alla corretta applicazione dell’IVA, va considerato che per i prodotti CANAPA SATIVA con THC inferiore allo 0,5% sussiste un regime IVA agevolato, equiparandoli a prodotti di erboristeria e benessere. L’aliquota IVA applicabile è quindi quella del 10% (art.74 DPR 633/72 e successive modifiche), in luogo di quella del 22% prevista per i prodotti di tabacchi e sigarette.

Tale orientamento è stato confermato dall’Agenzia delle Dogane che, con la circolare 14/E del 5 luglio 2019, ha chiarito la non riconducibilità dei derivati della canapa sativa L. contenenti THC inferiore allo 0,2% alla voce TARIC NC24039980Altri tabacchi lavorati” soggetti ad aliquota IVA del 22%.

Cannabis light online: obblighi fiscali e modalità di fatturazione per un e-commerce

Come abbiamo detto la vendita cannabis light online è consentita per prodotti contenenti THC inferiore allo 0,5%, ma ciò non esime dal rispetto delle normative contabili e tributarie.

Le imprese che vendono online devono prima di tutto aprire una partita IVA, in quanto l’attività svolta costituisce un’effettiva attività. Per un e-commerce di cannabis light, essendo i prodotti assimilabili a quelli di erboristeria, l’aliquota IVA applicabile è del 10%. L’Agenzia delle Entrate prevede poi l’emissione di fatture elettroniche per tutti gli operatori con volume d’affari superiore a 25.000 euro.

Un aspetto da non sottovalutare riguarda la corretta tenuta della contabilità. Per le vendite online è necessario emettere fattura immediatamente dopo il pagamento da parte del cliente, registrando correttamente incassi e ricavi. Fondamentale poi versare trimestralmente i contributi INPS come titolare di partita IVA. Questi obblighi possono sembrare gravosi, ma grazie all’automazione dei pagamenti, la gestione amministrativa di un e-commerce si rivela più semplice di quanto si possa pensare dando così vita a un vero e proprio secondo lavoro online redditizio.

Tassa sulle mance e fatturazione degli introiti

In Italia il pagamento delle tasse e imposte è un obbligo di legge. Contribuire al sostentamento dello Stato tramite il versamento di contributi e imposte è doveroso per tutti i cittadini e le attività economiche. Tra le tante troviamo anche la tassa sulle mance, introiti aggiuntivi molto frequenti per alcune categorie lavorative come camerieri, baristi, estetiste. La normativa prevede che su queste somme, percepite con generosità dai clienti, vada versata un’aliquota IRPEF che varia dal 23% al 43% a seconda dei casi.

Se consideriamo che in alcuni settori le mance possono arrivare a costituire anche oltre il 30-40% dello stipendio annuale, è facile capire come il prelievo fiscale su queste entrate possa incidere in modo significativo sui guadagni finali di un’attività. Per un ristorante medio il mancato introito dovuto alla tassazione sulle mance può ammontare a diverse migliaia di euro l’anno, soldi che altrimenti potrebbero essere reinvestiti nell’azienda.

È quindi importante che tutti i soggetti economici, dipendenti e datori di lavoro, ottemperino agli obblighi di monitoraggio e versamento delle imposte per operare nel rispetto delle normative.

Tassa sulle mance: normativa fiscale e obblighi dichiarativi

Le mance rappresentano un’entrata reddituale che la normativa tributaria italiana ha regolamentato con precisione. Vediamo nel dettaglio la disciplina fiscale relativa a questa particolare forma di reddito.

Ai sensi dell’articolo 50 del Tuir, le somme percepite a titolo gratuito dal lavoratore dipendente, come appunto le mance, configurano reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Pertanto, sul relativo importo si applicano le cosiddette “imposte“, ovvero la ritenuta d’acconto effettuata dal sostituto d’imposta (datore di lavoro o committente) secondo le aliquote Irpef relative al reddito complessivo.

Tassa sulle mance

Il percipiente ha l’obbligo di comunicare preventivamente al sostituto d’imposta l’ammontare presunto delle mance al fine del calcolo corretto delle ritenute. In sede di dichiarazione dei redditi annuale poi dovrà indicare l’effettivo importo percepito a titolo di liberalità, in modo che il fisco possa verificare la corretta applicazione del prelievo. Pertanto, la normativa prevede precisi oneri di monitoraggio e trasparenza che i lavoratori sono tenuti a rispettare per la tassazione di questa particolare voce di reddito.

Tassa sulle mance e fatturazione degli introiti: registrazione contabile e versamento delle ritenute

Come anticipato, la normativa prevede l’obbligo per i lavoratori di documentare fiscalmente le somme ricevute a titolo di mancia. Ai sensi dell’articolo 54 del DPR n.633/1972 e in ottemperanza al principio di “Pagare le tasse è obbligatorio”, il percipiente deve effettuare la registrazione contabile delle mance mediante ricevute fiscali o annotazioni su appositi registri. Nello specifico, il registro delle mance (cosiddetto “mance book“) deve riportare data, nome del cliente, importo ricevuto ed eventuali note illustrative. Tale documentazione deve essere conservata agli atti per i successivi controlli dell’Agenzia delle Entrate.

Successivamente, il soggetto che ha operato le ritenute (sostituto d’imposta) dovrà provvedere al versamento periodico delle somme trattenute. Il datore di lavoro – che normalmente svolge tale funzione – effettuerà i pagamenti alle scadenze previste per i contributi INPS (in genere entro il 16 del mese successivo) utilizzando il mod.F24. In tal modo si assicura la corretta riscossione delle imposte dovute sul reddito aggiuntivo costituito dalle mance.

Rivalsa INPS 4 fattura elettronica agenzia entrate: cos’è e come inserirla correttamente in fattura

La corretta indicazione della rivalsa INPS nelle fatture elettroniche riveste una notevole importanza sia per i fornitori che per l’Agenzia delle Entrate. Per i fornitori che emettono fattura elettronica, specificare tale voce è fondamentale per diversi motivi:

  1. Consente di addebitare correttamente ai clienti i costi del personale dipendente utilizzato per erogare la prestazione fatturata. Questo in base al principio contabile per cui tutti i costi devono essere imputati ai clienti finali.
  2. Garantisce la possibilità di riversare effettivamente all’INPS – attraverso il modello F24 – l’ammontare dovuto a titolo di rivalsa. In assenza di tale indicazione, l’INPS non avrebbe modo di calcolare la somma da versare.
  3. Permette di dimostrare, in caso di controlli, di aver addebitato ai clienti tutti i costi effettivamente sostenuti per poter ottenere i ricavi dichiarati.

Per l’Agenzia delle Entrate invece l’indicazione della rivalsa in fattura elettronica consente di:

  1. Verificare che i fornitori stiano addebitando ai clienti tutti i costi di competenza come previsto dalla legge, evitando distorsioni fiscali.
  2. Monitorare il corretto versamento di quanto dovuto all’INPS a titolo contributivo.

Quindi, la rivalsa INPS 4 fattura elettronica agenzia entrate può essere considerata un’informazione rilevante sia per una corretta fiscalità da parte dei fornitori che per le attività ispettive dell’Agenzia delle Entrate. Un suo omesso o errato utilizzo nelle fatture elettroniche potrebbe comportare sanzioni.

rivalsa INPS 4 fattura elettronica agenzia entrateRivalsa INPS 4 fattura elettronica: cos’è e qual è il suo scopo

La rivalsa INPS è un contributo aggiuntivo che i datori di lavoro devono versare all’INPS a titolo di recupero di una parte dei costi sostenuti per alcune prestazioni assistenziali e previdenziali erogate ai dipendenti.

In pratica sulle fatture emesse ai clienti i fornitori che applicano la fatturazione elettronica per Forfettari devono indicare questa voce di costo (rivalsa INPS) per poter poi riversare all’INPS quanto dovuto. Quando e perché deve essere inserita? La rivalsa INPS va sempre inserita nelle fatture elettroniche emesse, per ogni periodo di lavoro svolto dai dipendenti, per la quota parte di competenza del cliente.

 

Ad esempio se un dipendente ha lavorato il 50% del mese per un cliente, nella fattura emessa a quest’ultimo verrà addebitato anche il 50% dell’importo complessivo della rivalsa INPS dovuta per quel mese. L’importo è pari a circa il 24% dei contributi previdenziali INPS a carico dell’azienda (come TFR, malattia, maternità e ferie). Indicando correttamente la rivalsa INPS nelle fatture elettroniche si rende noto al cliente il costo del lavoro “nascosto” dietro la prestazione fatturata, permettendo poi all’azienda di assolvere l’obbligo di versamento all’INPS.

Rivalsa INPS 4 fattura elettronica agenzia entrate: come inserirla correttamente in fattura elettronica

È fondamentale inserire la rivalsa INPS nella fattura elettronica in modo corretto, seguendo le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate:

  1. La denominazione. La voce deve essere denominata “Rivalsa INPS” o “Rivalsa art. 2119 cc”, valorizzando obbligatoriamente il tipo di dato CNT336.
  2. Le voci di costo. La rivalsa rientra nella categoria “oneri accessori”, andando a incidere sul costo indiretto del personale dipendente utilizzato per fornire la prestazione.
  3. Collocazione in fattura. La rivalsa deve essere inserita in una riga separata, alla fine del dettaglio delle voci di costo, indicando anche l’aliquota di calcolo (solitamente 24%).

Esempio:

Descrizione Quantità Prezzo Unitario Aliquota IVA Importo IVA Importo Rig

Rivalsa INPS 1 500,00 esente 0,00 500,00

Altri aspetti. Non sono presenti limiti di importo ma è importante saper calcolare correttamente l’ammontare in base alle norme vigenti, poiché in occasione dei controlli l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare un importo irregolare. Quindi, indicando una corretta rivalsa INPS in fattura elettronica si evita il rischio di sanzioni ed è possibile riversare all’INPS effettivamente quanto dovuto a titolo di contributi.

Sgravi contributivi: cosa sono e come possono aiutare le aziende italiane

Gli sgravi contributivi sono uno strumento importante per supportare le aziende italiane, alle prese con un costo del lavoro troppo elevato e una pressione fiscale tra le più alte d’Europa. I numeri dimostrano in modo chiaro l’impatto positivo di queste agevolazioni. Secondo uno studio di Confindustria, gli sgravi contributivi valgono in media 4.500 euro l’anno per dipendente. Per le aziende questo si traduce in risparmi tra il 5% e il 15% sul monte salari annuo, a seconda del settore e delle dimensioni.

Uno studio ISTAT mostra poi che le aziende che usufruiscono di sgravi contributivi hanno una produttività del lavoro mediamente superiore fino al 20% rispetto a quelle “ordinarie”, grazie alle maggiori assunzioni, formazione e investimenti resi possibili dalle agevolazioni. In base ai dati Unioncamere, nel 2021 le imprese italiane hanno beneficiato complessivamente di sgravi contributivi per un valore di oltre 12 miliardi di euro. Una cifra in costante crescita negli ultimi anni.

Questi numeri dimostrano chiaramente come gli sgravi contributivi siano in grado di alleggerire sensibilmente i costi del lavoro per le aziende, migliorandone la redditività e la produttività e quindi la competitività sul mercato. Naturalmente è necessario che le agevolazioni fiscali siano ben modulate ed evitino sprechi o abusi, favorendo le giuste condizioni per un miglioramento strutturale delle imprese. Ma quando ben calibrate, come dimostrano i dati, possono dare risultati concreti a supporto del tessuto produttivo e occupazionale italiano.

Sgravi contributivi

Sgravi contributivi: che cosa sono

Gli sgravi contributivi sono agevolazioni fiscali introdotte dallo Stato che consentono alle aziende di beneficiare della riduzione o dell’esonero, totale o parziale, dei contributi previdenziali dovuti per i propri dipendenti. In pratica, le imprese pagano un ammontare ridotto di contributi all’INPS su determinate tipologie di lavoratori o in presenza di specifiche condizioni.

Gli sgravi contributivi mirano a ridurre il costo del lavoro per le aziende e a incentivare determinate condotte, come le assunzioni stabili, gli investimenti in formazione o lo sviluppo di settori strategici. Queste agevolazioni possono essere concesse in via definitiva o transitoria, per un determinato periodo di tempo. Spesso sono riviste e aggiornate nella legge di bilancio annuale, in base alle priorità e agli obiettivi del Governo.

La legge di bilancio, ad esempio, potrebbe confermare e prorogare molti sgravi attualmente in vigore, ma anche introdurne di nuovi per far fronte alla difficile congiuntura economica. In ogni caso gli sgravi contributivi rappresentano uno strumento utile per agevolare le imprese, soprattutto PMI e settori in difficoltà, riducendo il carico fiscale sul costo del lavoro.

Sgravio contributivo: quali sono e come possono aiutare concretamente le imprese

Gli sgravi contributivi possono aiutare concretamente le imprese italiane grazie a diversi meccanismi:

  1. Riducendo il cuneo fiscale e i costi del lavoro: la riduzione dei contributi pagati dalle aziende si traduce in minori spese, a vantaggio della redditività e della competitività.
  2. Incentivando le assunzioni stabili e la formazione: gli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato e gli investimenti in formazione spingono le imprese ad adottare queste pratiche virtuose, a beneficio della produttività.
  3. Supportando lo sviluppo di determinati ambiti produttivi: l’esenzione o la riduzione dei contributi in alcuni settori strategici vuole stimolare la crescita di quelle filiere.
  4. Favorendo la crescita e la competitività, soprattutto delle PMI: le piccole e medie imprese, che difficilmente riescono a ottimizzare la propria pianificazione fiscale, traggono maggiori benefici dagli sgravi contributivi.

In sintesi, gli sgravi possono abbassare il costo del lavoro e incentivare pratiche aziendali utili alla crescita, migliorando redditività, produttività e competitività delle imprese specie PMI. Sono però necessarie politiche strutturali per favorire la giusta pianificazione fiscale e rendere gli sgravi contributivi davvero efficaci nel lungo termine.

Quanto costa aprire partita iva in Italia e all’estero

Se siete imprenditori o avete preso la decisione di realizzare le vostre idee imprenditoriali, è giunto il momento di intraprendere il percorso dell’autonomia lavorativa. Diventare lavoratori autonomi o professionisti indipendenti è un processo più accessibile di quanto possa sembrare.

Il primo passo fondamentale consiste nell’ aprire una partita IVA in Italia. Nel Bel Paese, infatti, i lavoratori autonomi devono aprire una Partita IVA per fini fiscali, come l’emissione di fatture elettroniche e il pagamento dei contributi dovuti alle autorità fiscali e previdenziali. Cerchiamo quindi di capire quanti e quali sono i costi associati alla Partita IVA, sia in Italia che all’estero.

Quanto costa aprire partita IVA in Italia?

Costi associati all’apertura della Partita IVA come ditta individuale variano tra 130 e 150 euro, includendo le spese di iscrizione al Registro delle Imprese, che comprendono diritti camerali, imposte di segreteria e imposte di bollo. La complessa procedura burocratica, specialmente nel caso delle ditte individuali, può essere intimidatoria, spingendo molte persone a rivolgersi a un professionista. Tuttavia, i costi per l’assistenza di un commercialista nell’apertura della Partita IVA possono essere significativi, aumentando considerevolmente l’importo iniziale.

Quanto costa aprire la partita IVA e mantenerla in Italia? Le imposte

La tassazione varia in base al regime fiscale adottato e riguarda le aliquote, le scadenze dei pagamenti, le possibili agevolazioni, le rateizzazioni, ecc. Queste regole si applicano a tutti i contribuenti, indipendentemente dall’attività svolta. Per i giovani e le nuove attività, il regime forfettario è spesso la soluzione migliore. Infatti offre una tassazione vantaggiosa e una gestione semplificata della contabilità e delle fatture. Nel regime forfettario, i costi della Partita IVA includono l’applicazione di un’imposta sostitutiva del 15% (5% per le nuove attività nei primi 5 anni) che si applica sul reddito imponibile e non sull’intero fatturato. È importante considerare anche le spese relative ai contributi.

Contributi previdenziali: a quanto ammontano?

I contributi dipendono dalla Cassa o dalla Gestione a cui ci si iscrive e ogni entità stabilisce le proprie aliquote, le scadenze dei versamenti e altri aspetti. Per i liberi professionisti iscritti alla Gestione Separata dell’INPS, i contributi sono calcolati in proporzione al volume d’affari effettivamente prodotto. Si basano sul reddito imponibile e sono soggetti a un’aliquota del 25,72%. Nel caso delle ditte individuali, la Cassa di riferimento è la Gestione Artigiani e Commercianti dell’INPS. In questo caso, è previsto un contributo fisso di circa 3.850 euro annui, da versare anche in caso di reddito zero. In aggiunta, vi è un contributo “extra” che si applica solo sulla parte eccedente il “reddito minimo INPS” (attualmente pari a 15.953 euro) con un’aliquota del 24% (o del 21,90% per i professionisti sotto i 21 anni). I contributi possono rappresentare un ostacolo, soprattutto per i giovani che intendono aprire una Partita IVA. Tuttavia, è importante sapere che alcune categorie di lavoratori autonomi possono beneficiare di agevolazioni legate all’età, e alcune Casse Previdenziali riservate ai professionisti offrono riduzioni di aliquote o richiedono il versamento di una percentuale ridotta dei contributi fissi. Queste agevolazioni consentono una riduzione dei costi della Partita IVA per i giovani professionisti.

Quanto costa aprire partita iva

Quanto costa aprire una partita IVA

Aprire una Partita IVA all’estero comporta costi e procedure specifiche che variano a seconda del paese di destinazione. Prima di intraprendere tale percorso, è fondamentale compiere una ricerca accurata e consultare esperti del settore per valutare attentamente i costi associati e i requisiti richiesti.

Innanzitutto, è necessario considerare i costi legati alla registrazione e all’iscrizione nel paese straniero. Questi costi possono variare notevolmente a seconda della nazione e delle sue normative fiscali. In alcuni paesi potrebbero essere richiesti diritti di registrazione, tasse amministrative e spese legali per avviare l’attività. È importante tenere conto di questi fattori nel budget di apertura della Partita IVA all’estero.

Occorre considerare gli oneri fiscali e le imposte annuali che saranno applicate nell’ambito dell’attività commerciale all’estero. Ogni paese ha il proprio sistema fiscale con regole e aliquote specifiche. È necessario comprendere come tali imposte saranno calcolate e come influiranno sui profitti dell’attività. Spesso, è necessario avvalersi di consulenti fiscali locali per garantire la conformità alle normative e per gestire correttamente le questioni fiscali.

Facciamo un esempio. L’apertura di una Partita IVA in Inghilterra comporta una serie di costi da considerare. Ad esempio, i costi iniziali per la registrazione e l’iscrizione nel Registro delle Imprese possono variare da circa £12 a £100, a seconda del tipo di servizio richiesto. È necessario prendere in considerazione le spese legali che possono ammontare a diverse centinaia di sterline, soprattutto se si richiede l’assistenza di un avvocato per la creazione di contratti o accordi commerciali. Altri costi da considerare sono le tasse annuali di iscrizione alla Camera di Commercio e le spese per la consulenza fiscale per garantire la conformità alle leggi fiscali britanniche. È importante tenere conto di queste voci di spesa al fine di pianificare in modo adeguato l’apertura di una Partita IVA in Inghilterra.

Chi non può aprire una partita iva: categorie e casistiche

L’apertura di una partita IVA rappresenta il primo passo per diventare imprenditore o professionista autonomo. Ma non tutti possono aprire una partita IVA. Ci sono categorie di persone che non possono farlo per diverse ragioni. In questo articolo, vedremo chi non può aprire partita IVA e le casistiche che ne derivano.

Chi non può aprire una partita iva: dipendenti pubblici

Una delle categorie di persone che non può aprire una partita IVA sono i dipendenti pubblici. Questi lavoratori, infatti, non possono aprire una partita IVA per le attività che svolgono all’interno della propria istituzione, a meno che non si tratti di attività accessorie e non concorrenti con il lavoro principale. In altre parole, un professore universitario non può aprire una partita IVA per insegnare nella propria università, ma può farlo per dare lezioni private. Lo stesso vale per un medico delle strutture pubbliche. Non può aprire una partita IVA per svolgere attività medica all’interno dell’ospedale, ma può farlo per esercitare la professione in studio privato.

È importante sottolineare che i dipendenti pubblici non possono aprire una partita IVA per svolgere attività che possono interferire con il loro lavoro principale o che potrebbero causare conflitti di interesse. Questo perché, come previsto dalla normativa, i dipendenti pubblici devono svolgere il proprio lavoro con imparzialità, neutralità e trasparenza.

In ogni caso, i dipendenti pubblici che desiderano avviare un’attività imprenditoriale o professionale possono farlo solo se ottemperano alle normative vigenti e ottenendo preventivamente l’autorizzazione del proprio datore di lavoro. In questo modo, è possibile evitare problemi di conflitto d’interesse e garantire il rispetto della legge.

Chi non può aprire una partita ivaRequisiti per aprire partita IVA: maggiorenni VS minori di 18 anni

Un altro aspetto importante da considerare riguarda i requisiti per aprire una partita IVA. In particolare, i minori di 18 anni non possono aprire una partita IVA in quanto non hanno la capacità giuridica necessaria per svolgere un’attività economica in proprio. In questo caso, il minore può comunque lavorare come dipendente o come collaboratore di un’impresa o di un professionista già registrato. Al contrario, i maggiorenni possono aprire una partita IVA, purché siano in possesso dei requisiti richiesti. Tra questi, vi è la necessità di avere la residenza o la sede legale in Italia, essere in possesso di un codice fiscale e non essere già titolari di una partita IVA attiva.

Sebbene i maggiorenni possano aprire una partita IVA, ci sono alcune limitazioni e obblighi da rispettare. Ad esempio, è necessario iscriversi alla Camera di Commercio competente per territorio e pagare il relativo diritto camerale. Bisogna poi scegliere la forma giuridica più adatta alle proprie esigenze, tra cui la ditta individuale, la società di persone o la società di capitali. Inoltre, è necessario avere una conoscenza approfondita delle norme fiscali e delle procedure amministrative che regolamentano l’apertura di una partita IVA. Da non sottovalutare, inoltre, sono le responsabilità fiscali e legali che si assumono nel momento in cui si decide di aprire una partita IVA. Infatti, i titolari di una partita IVA sono tenuti a gestire in modo autonomo la propria attività e a rispettare le normative fiscali e contabili in vigore. In caso di violazione di queste norme, si rischia di incorrere in sanzioni pecuniarie.

Come funziona partita IVA per i pensionati

Infine, vi è la casistica dei pensionati. In questo caso, i pensionati che ricevono una pensione di vecchiaia o di invalidità dall’INPS non possono aprire una partita IVA per la stessa attività per cui percepiscono la pensione. Tuttavia, possono aprire una partita IVA per un’altra attività, sempre che questa non confligga con la loro pensione e non superi determinati limiti di reddito. Possono comunque diventare collaboratori occasionali di un’azienda o di un professionista, senza aprire una partita IVA.

In generale, l’apertura di una partita IVA richiede l’attenta valutazione dei requisiti e delle casistiche che possono impedirne l’apertura. È necessario rispettare le normative in vigore per evitare problemi fiscali e legali. Chi desidera può rivolgersi a un commercialista o a un esperto del settore per avere maggior i informazioni e un supporto adeguato.

Conoscere le modalità e le scadenze per la presentazione delle dichiarazioni fiscali e per il pagamento delle tasse e dei contributi previdenziali è molto importante. Infatti, avere partita IVA comporta anche una serie di obblighi e responsabilità che devono essere rispettati per evitare sanzioni e problemi con l’amministrazione fiscale.

Come annullare una fattura elettronica

La fatturazione elettronica è un sistema di emissione e trasmissione di fatture attraverso il web, introdotto in Italia dal 2019. In questo articolo, spiegheremo come annullare una fattura elettronica.

Si Può Annullare una Fattura Elettronica?

Sì, è possibile annullare una fattura elettronica. In alcuni casi, potrebbe essere necessario annullare una fattura elettronica perché è stata emessa in modo errato o perché la transazione commerciale a cui si riferisce non è andata a buon fine.

Come Annullare una Fattura Elettronica Emessa Ma non ancora inviata

Per annullare una fattura elettronica non ancora inviata, basta semplicemente eliminarla dal proprio sistema di fatturazione. Una volta emessa e salvata, una fattura elettronica non può essere modificata o cancellata. Pertanto, è importante verificare attentamente i dati inseriti prima di procedere all’emissione. Se la fattura contiene un errore ma non si è ancora proceduto all’invio, è sufficiente eliminarlo definitivamente dalla propria piattaforma e crearne una nuova corretta. È importante assicurarsi di seguire le linee guida stabilite dall’Agenzia delle Entrate per l’emissione delle fatture elettroniche.

Annullare una fattura elettronica scartata dal Sistema di Interscambio

Quando una fattura elettronica inviata al Sistema di Interscambio (SdI) è scartata perché contenente errori, non può più essere annullata. Una volta emessa e inviata, una fattura elettronica non può essere modificata o cancellata. Pertanto, il primo passo da fare in questo caso è correggere gli errori della fattura scartata e inviarla nuovamente al SdI entro 5 giorni dalla data della notifica di scarto. In questo specifico caso è fondamentale assicurarsi di utilizzare lo stesso numero e la stessa data della fattura originale. In alternativa è anche possibile emettere una nuova fattura corretta con nuovo numero e data, seguendo le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate. In ogni caso, è sempre consigliato consultare e seguire le linee guida stabilite dall’Agenzia delle Entrate per l’emissione delle fatture elettroniche.

Fattura elettronica rifiutata dalla pubblica amministrazione

La Pubblica Amministrazione può rifiutare una fattura elettronica anche se è stata già approvata dal Sistema di Interscambio (SdI). Ci sono due modi in cui questo può avvenire:

  1. la Pubblica Amministrazione può inviare una “Notifica di esito negativo“, in cui notifica gli errori presenti nella fattura
  2. può rifiutare la fattura dopo averla già accettata o più di 15 giorni dopo averla ricevuta senza prima segnalare eventuali problemi.

In questi casi, la Pubblica Amministrazione potrebbe contattare direttamente il mittente della fattura per richiedere una nota di credito e una nuova fattura elettronica. È importante correggere gli errori il prima possibile per evitare sanzioni in caso di controlli delle autorità.

Come annullare una fattura elettronica

Nota di credito fattura elettronica

La nota di credito è un documento utilizzato per annullare o modificare una fattura già emessa. Con l’entrata in vigore della fattura elettronica, l’emissione di una nota di credito diventa simile all’emissione di una fattura elettronica stessa. Anche la nota di credito deve essere trasmessa attraverso il Sistema di Interscambio (SdI) utilizzando il codice operativo TD04. In alcuni casi, non è necessario emettere una nota di credito. Ad esempio:

  • l’IBAN è diverso
  • i campi della fattura elettronica (FE) sono compilati in modo improprio
  • l’indirizzo PEC è errato ma la fattura è stata comunque ricevuta dallo SdI
  • l’importo totale è sbagliato ma l’imponibile e l’IVA sono corretti.

Come fare nota di credito fattura elettronica

La necessità di sapere come annullare una fattura elettronica è nata sin da quando è entrato in vigore l’obbligo della fatturazione elettronica. A questa necessità si è affiancata anche quella di sapere come emettere una nota di credito. Vogliamo quindi ricordare brevemente le caratteristiche principali delle note di credito. La nota di credito ha caratteristiche simili a una fattura ordinaria, ma deve essere indicata come “nota di credito” e deve contenere alcune informazioni specifiche. In particolare, devono essere specificati:

  1. data di emissione
  2. numero progressivo
  3. dati dell’emittente
  4. dati del destinatario
  5. tipo di pagamento.

Inoltre, dev’essere fornita una descrizione della prestazione, che può essere l’importo totale nel caso di annullamento della fattura o l’importo da rettificare in caso di modifica della fattura. Altre informazioni da includere sono le modifiche all’IVA, alla rivalsa INPS e alla ritenuta d’acconto. Nel caso in cui sia apportata una modifica alla rivalsa INPS o all’IVA, questi importi devono essere indicati in negativo. Se è apportata una modifica alla ritenuta d’acconto, deve essere indicata in positivo. È importante compilare correttamente la nota di credito per evitare sanzioni in caso di controlli delle autorità. È anche importante tenere traccia delle note di credito emesse, in modo da poterle utilizzare come riferimento in futuro, se necessario.

Come diventare copywriter e seguire la giusta disciplina fiscale

Oggi sono in molti a essere interessati a sapere come diventare copywriter. Si tratta di una professione che si è largamente diffusa anche grazie allo smart working. I soggetti che decidono d’intraprendere questa carriera, non sono obbligati ad aprire una partita IVA. Infatti, è una professione che può, qualche volta, essere svolta anche come prestazione occasionale.

Copywriter: cosa fa

La figura del copywriter è cambiata e si è evoluta negli ultimi anni. Oggi, un copy, non si occupa solo di scrivere testi pubblicitari, slogan o contenuti persuasivi. Le sue mansioni si sono fuse e mescolate con quelle dell’articolista. In entrambi i casi, comunque, le professioni possono essere svolte sia alle dipendenze di qualcuno, che come liberi professionisti.

Come diventare copywriter

In alcuni articoli precedenti, abbiamo già visto che per lavorare come sviluppatore app o come accompagnatore turistico serve aprire una partita IVA. Per la professione del copywriter non è detto che sia necessario dotarsi di partita IVA con un preciso codice ATECO.

Per capire quando e se è necessaria la partita IVA, prima bisogna capire se il lavoro è svolto in maniera saltuaria e non continuativa, oppure in modo abituale. Per fare un esempio, quando la domanda di lavoro ammonta a quattro articoli da scrivere in una volta sola, durante tutto l’anno, allora la prestazione è occasionale. Quando invece i soliti quattro articoli dell’esempio devono essere scritti tutti i mesi per tutto l’anno, allora il lavoro è continuativo e abituale. In questo secondo caso serve pertanto l’apertura di una partita IVA.

Come sempre per l’apertura è necessario compilare uno specifico modulo da presentare ad Agenzia delle Entrate in via telematica o cartacea. Sul modulo deve essere indicato il codice ATECO corretto. Per questa professione non ne esiste solamente uno, ma ce ne sono diversi:

  • 90.99: altre attività professionali NCA;
  • 21.00: relazioni pubbliche e comunicazione;
  • 99.00: altre attività dei servizi d’informazione NCA;
  • 11.01: ideazione di campagne pubblicitarie.

Il codice cambia a second del lavoro svolto, degli obiettivi perseguiti e della tipologia di cliente per il quale è svolta l’attività.

Come diventare copywriter

Freelance copywriter e Iscrizione Alla Gestione Separata Dell’Inps

Tra le cose da sapere su come diventare copywriter c’è anche quella dell’iscrizione alla gestione separata dell’INPS. La gestione separata è un regime previdenziale utilizzato da tutti i professionisti non coperti dalla cassa previdenziale obbligatoria. La gestione separata prevede il versamento di contributi due volte nel corso dell’anno, in concomitanza con altri obblighi fiscali.

Il copywriter non è obbligato a iscriversi al Registro delle Imprese a meno che non svolga molte attività, una delle quali ne richiede l’iscrizione. Per un inquadramento più preciso è sempre meglio rivolgersi a un dottore commercialista che può consigliare la soluzione migliore. L’iscrizione alla gestione separata deve avvenire entro e non oltre trenta giorni dal momento in cui è aperta partita IVA. La quota annua da versare a INPS ammonta al 25,98% dul reddito imponibile.

Copywriters e regime fiscale

Il copy è un’attività che può essere svolta in regime ordinario, oppure in regime forfettario. Il forfettario è un regime fiscale agevolato che consente di avere una tassazione al 5% nei primi cinque anni di attività, per poi passare al 15% successivamente.

IVA e IRPEF sono sostituite da questa tipologia di tassazione.

Aderendo al regime forfettario, come sempre, non è possibile superar i 65.000€ annui di fatturato. Se la soglia dovesse essere superata, avviene il passaggio diretto al regime ordinario. Inoltre, da luglio 2022 anche i forfettari, quindi anche i copy in questo regime, sono obbligati per legge a mettere fatturazione elettronica. Invece, i soggetti che non superano i 25.000€ di fatturato annui, possono mettere ancora la semplice fattura cartacea.

Accompagnatore Turistico: requisiti, regole e regime

Un accompagnatore turistico non è esattamente una guida turistica. La sua attività consiste nell’accompagnare i turisti, singoli o in gruppo, nei vari viaggi svolti sul territorio italiano. Si occupa dell’organizzazione del viaggio (tappe, tour e spostamenti) e fornisce informazioni generiche sui luoghi visitati. Per svolgere questa attività in modo autonomo è necessario aprire partita IVA, scegliere il regime fiscale più consono e versare i contributi previdenziali che permettono di accedere alla pensione.

Accompagnatore Turistico: chi è e cosa fa

L’accompagnatore turistico guida gruppi di persone straniere in Italia, oppure italiani all’estero. Organizza il viaggio e segue persone e comitive per accertarsi che tutto vada per il meglio e che il programma stabilito si svolga regolarmente. Non illustra le bellezze locali descrivendone la storia e la produzione, a differenza della guida turistica.

Per svolgere questa attività sono necessarie conoscenze e requisiti specifici stabiliti dalla normativa regionale vigente. Per diventare accompagnatore turistico è necessario:

  • aver compiuto almeno 18 anni di età
  • aver conseguito il diploma di scuola media superiore
  • possedere una fedina penale pulita
  • conoscere l’inglese a livello avanzato (C1)

Ci sono poi dei requisiti ulteriori che differiscono da regione a regione. Per operare come accompagnatore, oltre al diploma di scuola superiore è necessario aver sostenuto e superato un esame specifico di abilitazione per il conseguimento del patentino.

L’accompagnatore turistico e la partita IVA

La professione è tutelata da un sindacato specifico e per svolgerla è necessaria l’iscrizione al relativo albo. Il lavoro può essere svolto sia come dipendente, che come libero professionista, aprendo partita IVA. I soggetti che invece svolgono l’attività in modo saltuario possono ricorrere alla prestazione occasionale.

Accompagnatore Turistico

Come per lo sviluppatore app, anche l’accompagnatore turistico deve aprire partita IVA compilando il modulo AA 9/11 e presentarlo ad Agenzia delle Entrate. Il codice ATECO per accompagnatori turistici è il 79.90.2. È possibile, inoltre, aderire sia al regime ordinario che a quello forfettario. Ogni volta che un accompagnatore presta un servizio, è tenuto per legge, a emettere fattura elettronica.

Come diventare accompagnatore turistico: la scelta del regime fiscale

L’accompagnatore può decidere se aderire al regime ordinario, piuttosto che a quello forfettario. Sicuramente il più vantaggioso è il secondo. Per aderirvi è necessario rispettare alcuni requisiti, come ad esempio quello che relativo al fatturato annuo che non deve essere superiore ai 65.000€.

Il forfettario prevede un’aliquota unica pari al 15% che si abbassa al 5% nei primi 5 anni di attività. Da luglio del 2022 è diventato obbligatorio anche per i forfettari emettere fatturazione elettronica.

Scelto il regime serve poi l’iscrizione alla Gestione separata INPS. La gestione separata non prevede il versamento di una quota fissa annuale, ma solamente di una percentuale pari al 25,98% dei redditi percepiti. Infine, il regime forfettario esonera dall’obbligo delle scritture contabili e non prevede l’applicazione d’IVA e ritenute d’acconto.

Abilitazione accompagnatore turistico

L’ultimo passo da compiere per iniziare questa attività, è quello di presentare al proprio Comune di residenza una SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Il documento è necessario per dimostrare al proprio comune di essere in possesso di tutti i requisiti richiesti per svolgere attività di accompagnatore turistico.

Il documento deve essere presentato almeno un giorno prima dell’inizio dell’attività e può essere inviato sia per PEC, oppure telematicamente online. Il modulo deve riportare anche la firma digitale del soggetto che inoltra certificazione. È possibile trovare ulteriori informazioni consultando un dottore commercialista, oppure rivolgendosi all’ufficio SUAP del Comune dove deve essere avviata l’attività.

Sviluppatore app: partita IVA, regime fiscale e fatture elettroniche

Esperto di programmazione e informatica, lo sviluppatore app è simile al programmatore informatico, ma con qualche differenza. Per svolgere questo lavoro è necessario aprire una partita IVA, adempiere a precisi obblighi fiscali e scegliere un determinato regime fiscale in base alla natura dell’attività svolta.

Sviluppatore app: chi è e cosa fa

Esperto d’informatica, lo sviluppatore app, progetta e realizza applicazioni destinate a vari utilizzi. Dalla stampa di fotografie, a quelle utili a parcheggiare o a fare la spesa, le applicazioni oggi sono sempre più diffuse e utilizzate e si possono trovare in molti store online, gratis o a pagamento. Lo sviluppatore app può svolgere le proprie mansioni come dipendente, oppure come libero professionista.

La categoria di sviluppatori informatici non hanno una precisa disciplina fiscale. Se ne distinguono però due differenti casistiche:

  1. Sviluppatori che realizzano app per uno o più committenti – svolge attività professionale. Se continuativa deve aprire partita IVA compilando il modulo AA 9/12 e consegnarlo ad Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dall’inizio della propria attività.
  2. Sviluppatori informatici che creano app per rivenderle direttamente negli store di app.

Ci sono poi sviluppatori che fanno entrambe le cose. Chi non pratica questa attività in modo continuativo, può avvalersi della prestazione occasionale. Gli sviluppatori autonomi, quando aprono partita iva devono anche scegliere il relativo e corretto codice ATECO. Per farlo possono rivolgersi direttamente ad AdE (Agenzia delle Entrate), oppure attraverso un intermediario.

Sviluppatori app e codici ATECO

Il codice ATECO cambia a seconda della professione svolta. Gli sviluppatori di app possono scegliere tra:

  • 01.00 – produzione di software non connesso all’edizione;
  • 02.00 – consulenza nel settore delle tecnologie dell’informatica;

La scelta deve ricadere sul codice maggiormente inerente alla propria attività. Nel dubbio è possibile chiedere consiglio ad AdE, oppure a un dottore commercialista. I soggetti che decidono di creare app e venderle direttamente negli store online, devono scegliere il codice 49.91.10, relativo al commercio elettronico diretto.

Sviluppatore app

Sviluppatori di app e regimi fiscali

Il regime fiscale determina il modo con il quale lo sviluppatore app deve pagare le tasse allo Stato. Le imposte sono applicate in base alla diversa tipologia di ricavi prodotti. In questo caso, gli sviluppatori di applicazioni sono artefici di una vera e propria attività commerciale. Quindi, lo sviluppatore che crea app  e lavoro autonomamente deve:

  • aprire partita IVA
  • scegliere il regime fiscale migliore (ad esempio quello forfettario)
  • iscriversi all’INPS.

Invece, lo sviluppatore di app che crea e rivende applicazioni deve:

Gli sviluppatori di applicazioni possono aderire sia al regime ordinario che a quello forfettario. Per quanto riguarda il secondo, presenta dei notevoli vantaggi, ma tutto dipende dal fatturato annuo che non può superare i 65.000€ annui. Inoltre, non è possibile aderire a questo regime nemmeno quando il soggetto interessato partecipa ad associazioni o imprese familiari, oppure a società di persone o Srl.

I vantaggi del regime forfettario permettono allo sviluppatore app di non applicare l’IVA sulle fatture elettroniche e l’IRPEF. Inoltre, l’imposta sostitutiva è al 15% e si abbassa al 5% per i primi 5 anni. Le tasse sono applicate sulla base del coefficiente di redditività, che per lo sviluppatore di app è del 67%.

Programmatore app e previdenza sociale

Aperta la partita IVA è necessario comunica all’INPS l’inizio dell’attività. La comunicazione è necessaria per iniziare a versare i contributi che permettono di accedere alla pensione. In regime fiscale ordinario e forfettario è possibile l’iscrizione alla Gestione Separata INPS rivolta a tutti i professionisti.

I contributi da versare per questa categoria, ammontano a 25,98% del reddito imponibile sulla base del fatturato annuo. Se il fatturato annuo è inferiore o pari a 15.953€ esiste una quota minima di contributi da versare all’INPS pari a 3.850€.