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Identificazione diretta iva: cos’è e qual è la procedura da seguire

Sono ancora in molti a chiedersi come funziona la procedura per l’identificazione diretta iva in Italia e qual è la documentazione da presentare. Le aziende estere che si trovano a operare nel nostro paese tramite, ad esempio, e-commerce, potrebbero aver bisogno dell’identificazione diretta ai fini IVA. Per le operazioni eseguite su territorio straniero da una società non residente, l’IVA applicata e dovuta è quella del paese prestatore. Se l’attività all’interno del territorio dell’UE supera i 10.000 euro annuali, allora è obbligatoria l’identificazione diretta IVA per le vendite effettuate nel nostro paese. Il soggetto non residente deve, quindi, inquadrare correttamente la propria posizione da un punto di vista fiscale e tributario.

Identificazione diretta IVA: quando è veramente necessaria

Le aziende straniere che intendono operare in Italia, senza avere la residenza, lo possono fare scegliendo di intraprendere una delle seguenti tre possibilità:

  • Creare una società controllata sul nostro territorio (subsidiary). -soluzione più completa di tutte, attraverso la quale è possibile gestire qualunque attività.
  • Creare una branch, cioè una stabile organizzazione in Italia – il soggetto estero, in questo caso, deve avere almeno un ufficio o una sede fissa su territorio italiano, senza che vi sia un autonomo soggetto di diritto staccato dall’azienda estera.
  • Identificazione diretta iva – in questo caso la società estera non ha nessuna presenza fisica in Italia, ma vi svolge ugualmente un’attività commerciale (tramite e-commerce).

Scegliere l’una o l’altra opzione, dipende dal grado di presenza della società straniera sul nostro territorio. L’identificazione diretta IVA è disciplinata dall’art. 35-ter del DPR n. 633/72. Le aziende straniere che vendono in Italia tramite e-commerce e superano i 10.000 euro annui di fatturato, hanno l’obbligo di identificarsi ai fini IVA. Devono inoltre applicare il regime IVA OSS per adempiere agli obblighi IVA previsti.

Identificazione diretta IVA VS rappresentante fiscale

Identificazione diretta IVA e nomina di un rappresentante fiscale, sono procedure tra loro alternative. La nomina del rappresentante fiscale riguarda i soggetti passivi IVA residenti in un Paese extra-UE. Tali soggetti non possono ricorrere alla procedura di identificazione diretta IVA e, per aprire partita IVA devono quindi nominare un rappresentante fiscale.

Identificazione diretta iva

Identificazione diretta a fini IVA: norme di riferimento e funzionamento

L’identificazione diretta IVA è regolata dal

La procedura dell’identificazione è riservata a tutti quei soggetti che esercitano attività di impresa, di arte o professione all’interno di uno stato dell’Unione Europea. Questa è applicata in alternativa alla stabile organizzazione e alla nomina di rappresentante fiscale. La procedura si attiva quando la società estera cede beni o presta servizi territorialmente rilevanti in Italia. Le operazioni di cessione sono rivolte a soggetti come:

  1. Privati consumatori
  2. Enti non commerciali privi di partita IVA
  3. Soggetti non residenti anche se in possesso di partita Iva

Tutte le operazioni eseguite nei confronti di altre imprese sono soggette all’emissione di fattura elettronica. La fattura non riporterà, in questo caso, l’indicazione della partita IVA italiana. Il soggetto committente italiano, invece, deve registrare la ricevuta del soggetto estero attraverso la procedura del Reverse Charge con il meccanismo dell’autofattura, oppure dell’integrazione contabile.

Responsabilità tributaria

Al pari dell’identificazione, anche la responsabilità tributaria riveste un ruolo molto importante per i soggetti esteri che operano in Italia. La responsabilità tributaria è imputabile all’azienda estera. È necessario fare comunque una distinzione tra imposte dirette  e imposte indirette.

Il soggetto straniero che opera in Italia non assume il territorio nostrano come fiscalmente rilevante. Mantiene quindi quello di origine come riferimento per i tributi. Nonostante questo, la società estera non residente diventa comunque soggetto destinatario di diritti e obblighi previsti dalla normativa fiscale. La legge infatti stabilisce che per le operazioni rilevanti nel territorio dello Stato ai fini IVA, il soggetto rimane obbligato al pagamento.

Al contrario, per quanto riguarda invece le imposte sui redditi, il soggetto estero che opera in Italia, non assume residenza sul nostro territorio, non diventa soggetto di diritto a cui possono essere imputati diritti e obblighi tributari. Tale soggetto rimane assoggettato alle imposte dirette nel Paese in cui risulta essere fiscalmente residente.

Tuir: cos’è e a cosa serve il Testo Unico delle Imposte sui Redditi

Tuir è acronimo di Testo Unico delle Imposte sui Redditi. Come dice il nome stesso, disciplina  la tassazione dei redditi di qualunque tipologia di contribuente. Che si tratti di persona fisica, piuttosto che di società, il TUIR è sempre il punto di riferimento a cui rivolgere la propria attenzione. È presente in Italia dal 1986, quando venne introdotto nell’ordinamento dal D.P.R. 917. È in continuo divenire, sempre in aggiornamento per stare al passo con i tempi e disciplinare al meglio l’argomento (spinoso) legato alla tassazione dei redditi. Si tratta di un argomento piuttosto lungo e complesso, più che altro forse, spinoso perché tocca un soggettivamente chiunque. Non si tratta infatti, di una normativa che riguarda esclusivamente le società, i liberi professionisti, le PMI e i commercianti, ma chiunque produca un qualunque tipo di reddito nel nostro paese. Cerchiamo quindi di capire com’è fatto, cosa contiene e a cosa disciplina, nello specifico.

TUIR: com’è strutturato

Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi è suddiviso in quattro diverse parti:

  • IRPEF
  • IRES
  • Operazioni di carattere straordinario e operazioni di carattere internazionale
  • Disposizioni varie, transitorie e finali

Ciascuna parte è a sua volta suddivisa in Capi svariati Articoli. Per capire meglio la struttura del testo ne riportiamo la suddivisione nei vari capitoli interni:

IRPEF

  • Titolo I – Imposta sul reddito delle persone fisiche

Seguono poi i Capi dal I al VII, dedicati a:

  • Disposizioni generali (artt. 1-24)
  • Redditi fondiari (artt. 25-43)
  • Redditi di capitale (artt. 44-48)
  • Redditi di lavoro dipendente (artt. 49-52)
  • Redditi di lavoro autonomo (artt. 53-54)
  • Redditi di impresa (artt. 55-66)
  • Redditi diversi (artt. 67-71)

IRES

  • Titolo II – Imposta sul reddito delle società

Seguono poi i Capi dal I al VI, dedicati a:

  • Soggetti passivi e disposizioni generali (artt. 72-80)
  • Base imponibile società/enti commerciali residenti (artt. 81-142)
  • Enti non commerciali residenti (artt. 143-150)
  • Società ed enti commerciali non residenti (artt. 151-152)
  • Enti non commerciali non residenti (artt. 153-154)
  • Base imponibile per alcune imprese marittime (artt. 155-161)

Tuir

Disposizioni comuni

  • Titolo III – Disposizioni comuni

Seguono poi i Capi dal I al V, dedicati a:

  • Disposizioni generali (artt. 162-164)
  • Redditi prodotti all’estero e rapporti internazionali (artt. 165-169)
  • Operazioni straordinarie (artt. 170-177)
  • Operazioni straordinarie fra soggetti di diversi stati membri UE (artt. 178-181)
  • Liquidazione volontaria e procedure concorsuali (artt. 182-184)

Titolo IV – Disposizioni varie, transitorie e finali (artt. 185-191)

TUIR: modifiche e aggiunte

Come detto in apertura articolo, il TUIR è un testo sempre in continuo aggiornamento, che cerca di stare così al passo con i tempi. Lo scopo dei vari aggiornamenti, è quello di riuscire a disciplinare al meglio una materia vasta e complessa che cambia di anno in anno in base alla nascita di nuove esigenze fiscali ed economiche, nonché di dinamiche socio-politiche. Le varie modifiche apportate al testo unico vanno, di conseguenza, a incidere su ogni singolo contribuente italiano. Dalla persona fisica, all’azienda più piccola, fino ad arrivare alle società strutturate in compagnie maggiori che emettono ogni anno diverse centinaia di migliaia di fatture elettroniche.

Una delle ultime e più importanti modifiche al TUIR è stata quella applicata con il DLGS 344 del 12 dicembre 2003. Questa norma ha infatti introdotto nel testo unico l’IRPEG= Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche e l’IRES=Imposta sul Reddito delle Società. 

Per quanto riguarda l’IRES, negli articoli: “Quanto si paga di tasse in Italia: IRPEF, IRES e IRAP” e “Irpef e Ires: cosa sono e come funzionano” abbiamo già visto cos’è e quando grava sulle spalle dei contribuenti. Per quanto riguarda invece l’IRPEG, spendiamo qualche parola.

L’IRPEG è stata il precursore dell’IRES. Era una imposta italiana di tipo proporzionale. Dal 1° gennaio 2004 è stata definitivamente sostituita dall’IRES. Lo scopo è stato quello di disciplinare il regime fiscale dei capitali e delle imprese seguendo il modello prevalente nei Paesi membri dell’Unione Europea. Ai tempi fu una modifica radicale e profonda per il Testo unico sulle imposte sui Redditi, che segnò un punto di svolta per tutti. Il Decreto Legislativo artefice di questa modifica fu il 12 dicembre 2003, n. 344 “Riforma dell’imposizione sul reddito delle società, a norma dell’articolo 4 della legge 7 aprile 2003, n. 80“.

Accertamento sintetico: cos’è e come funziona

L’accertamento sintetico, conosciuto più comunemente come redditometro, è uno strumento utilizzato dal Fisco. Serve a determinare il reddito presunto dei contribuenti. Basa i calcoli sulle spese sostenute ed effettuati dai vari soggetti. È presente in Italia dal lontano 1973, ma rivisitato e potenziato nel 2010 in seguito al decreto legge n° 78.

Questo strumento è utilizzato dall’Agenzia delle Entrate. Serve quindi a determinare il reddito complessivo netto dei contribuenti e prende in esame le spese generiche sostenute dai vari soggetti. In base alle spese, Ade, determina il reddito netto e spetta al contribuente la prova contraria. In altre parole è a carico dell’utente dimostrare all’Agenzia delle Entrate che le spese sostenute sono state pagate con redditi diversi da quelli posseduti durante il periodo d’imposta (vale a dire preso in esame), oppure con redditi che non partecipano alla formazione del reddito imponibile, o ancora con redditi soggetti, o esenti, dalla ritenuta alla fonte.

Accertamento sintetico: dalle origini ad oggi

Per conoscere meglio questo particolare strumento del Fisco, partiamo proprio dalle sue origini. È introdotto nel 1973, dall’articolo n°38, c. 4 a 8, DPR n°600/1973. Fino al 2008 l’accertamento sintetico previsto dalla legge, prevedeva:

“… Con riferimento esclusivo alle persone fisiche, che prevede che l’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall’art. 39 del DPR n. 600/1973, può in base ad elementi e circostanze di fatto certo, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato”.

Nel 2010 le disposizioni sono state rivisitate. Oggi, infatti, l’accertamento sintetico e quindi il relativo redditometro consiste nella:

“… Determinazione sintetica del reddito complessivo ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto quello dichiarato. L’ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fi ni dell’accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione”.

Una forma leggermente diversa, con termini modificati che, in sostanza, comunque prevede sempre il redditometro quale strumento per l’accertamento del reddito netto di un contribuente. A lui poi l’onere della prova contraria.

Accertamento sintetico

Accertamento sintetico: a chi si applica

L0’accertamento sintetico è applicabile a tutte le persone fisiche ai fini di determinare l’imposta sul reddito. È inoltre applicabile a tutte le persone fisiche  che esercitano imprese, arti e professioni. In quest’ultimo caso il reddito complessivo dei soggetti deve risultare essere inferiore a quello a loro attribuibile, in base a tutte le spese sostenute nel periodo d’imposta esaminato e ai relativi indici di capacità contributiva. In altre parole si ricorre al redditometro, solo quando il reddito presunto supera di almeno il 20% di quello realmente dichiarato.

Il calcolo del reddito è eseguito in base a specifici indicatori di capacità contributiva. Il Fisco prende in esame specifiche spese sostenute dal soggetto durante il periodo d’imposta e ne moltiplica gli importi per determinati coefficienti di riferimento. I coefficienti sono legati alla classe di appartenenza del contribuente.

Accertamento sintetico: ecco come funziona

Cerchiamo adesso di capire nel dettaglio come funziona l’accertamento sintetico. Le caratteristiche prese in considerazione sono tre:

  • Composizione familiare – i calcoli sono effettuati valutando la situazione familiare del contribuente. Quindi si tiene conto se è single, oppure in coppia e se ha o no dei figli.
  • Età – tre i diversi scaglioni di appartenenza: fino a 35 anni, da 35 a 64 anni e oltre i 65 anni.
  • Area geografica di riferimento – in base alla residenza del contribuente sul territorio nazionale.

Ogni contribuente è identificato all’interno di specifiche classi. A ciascuna classe corrispondono dei coefficienti. Le spese effettuate dai contribuenti nell’arco del periodo d’imposta, sono moltiplicate per i relativi coefficienti. Il risultato corrisponde al presunto reddito netto. Agenzia delle Entrate, dopo aver calcolato l’importo, invia comunicazione al contribuente. In seguito alla ricezione dell’avviso, spetta al contribuente presentarsi presso gli uffici AdE competenti per territorio, e fornire le prove che giustificano le eventuali differenze tra spese e reddito dichiarato.

Successivamente all’accertamento sintetico, il contribuente può richiedere un accertamento di adesione. Agenzia delle Entrate mette inoltre a disposizione un sistema, chiamato Redditest che consente di calcolare preventivamente un’eventuale congruenza tra reddito dichiarato e spese sostenute.

Ravvedimento operoso 2021: cos’è, come funziona e quali sanzioni prevede

Il ravvedimento operoso è uno strumento ideato da Agenzia delle Entrate che permette ai contribuenti che vogliono mettersi in regola spontaneamente con il fisco. Si tratta quindi di uno strumento utilizzabile nei casi di violazioni, omissioni, pagamenti insufficienti e dichiarazioni dei redditi errate. Con il ravvedimento operoso 2021 è possibile sanare eventuali violazioni pagando delle sanzioni ridotte e applicando degli interessi di mora in base al numero dei giorni di omesso o ritardato adempimento fiscale. In questo modo i contribuenti che vogliono mettersi in regola fiscalmente in modo spontaneo, pagano delle sanzioni notevolmente ridotte rispetto a quelle che riceverebbero se aspettassero l’accertamento fiscale.

Ravvedimento operoso 2021: quando si applica e quali sono i vantaggi

Lo strumento del ravvedimento operoso è utilizzabile da tutti (o quasi) privati cittadini e imprese. Introdotto in Italia dall’art 13 del Decreto legislativo n° 472 del 1997 ha portata a una diminuzione delle sanzioni applicabili a chi commette violazione fiscale. Si può utilizzare nei casi di:

  • versamenti omessi
  • pagamenti ritardati
  • versamenti errati o insufficienti
  • dichiarazione dei redditi omesse, oppure in ritardo, o ancora errate o insufficienti
  • comunicazioni omesse, presentate in ritardo o sbagliate

Ravvedimento operoso 2021

I vantaggi di sfruttare il ravvedimento operoso 2021 si possono riassumere in quattro diversi punti:

  1. pagare una sanzione ridotta in base al numero dei giorni del mancato, ritardato, o insufficiente adempimento
  2. avere la possibilità di saldare un tributo omesso, ritardato o insufficiente
  3. presentare comunicazione o dichiarazione dei redditi omessa
  4. pagare gli interessi di mora legali solo in base al tasso legale annuo stabilito dalla BCE

Ravvedimento operoso 2021: uno strumento versatile e potente

Il meccanismo di funzionamento di questo strumento è piuttosto semplice. In pratica un contribuente, cittadino o impresa che sia, che ha commesso una violazione fiscale, sa che può ricorrere spontaneamente al ravvedimento operoso 2021 per sanare la violazione stessa, pagando solo la sanzione ridotta, il tributo omesso e gli interessi di mora, calcolati sugli effettivi giorni di ritardo.

Il ravvedimento operoso è uno strumento per mettersi in regola spontaneamente. Nessuna lettera, comunicazione, o sollecito è inviata al contribuente per far presente che può pagare una sanzione ridotta, adottando questo sistema. È possibile usufruire del ravvedimento anche quando è già iniziata la procedura di accertamento della violazione, o la sua contestazione, da parte dell’Amministrazione Finanziaria.

Il ravvedimento operoso 2021 è usufruibile solo per mettersi in regola con tributi e tasse dell’Agenzia delle Entrate: IRPEF, IVA, IRAP, imposta di registro, imposta ipotecaria, imposta catastale, di bollo, successione, ecc…

Anche i contribuenti che hanno già ricevuto una lettera di accertamento fiscale, possono ancora ricorrere all ravvedimento operoso. Non è invece più possibile farvi ricorso nei casi in cui la notifica è per atti di liquidazione, accertamento. Allo stesso modo non si può utilizzare questo strumento in caso di ricezione di comunicazione di irregolarità, emessa a seguito di controlli automatici, o del controllo formale delle dichiarazioni dei redditi.

Tipologie di ravvedimento operoso

Ne esistono di ben 5 diverse tipologie, suddivise in base alle percentuali sanzionatorie applicate. I ravvedimenti quindi possono essere:

  • sprint – se il pagamento è effettuato entro i primi 14 giorni dalla scadenza del tributo/tassa e corrisponde all’1%
  • breve – se il pagamento è effettuato dal 15° al 30° giorno dalla scadenza del tributo/tassa e corrisponde all’1,5%
  • intermedio – se il pagamento è effettuato entro 90 giorni dalla scadenza del tributo/tassa e corrisponde all’1,67%
  • lungo – se il pagamento è effettuato entro lo stesso anno della violazione (o meglio, entro la dichiarazione dei redditi successiva) e corrisponde all’3,75%
  • lunghissimo – se il pagamento è effettuato entro e oltre i due anni dalla scadenza del tributo/tassa e corrisponde all’4,95-5,00%

Ravvedimento operoso 2021 ed interessi di mora

È quindi possibile pagare usando lo strumento del ravvedimento operoso, saldando la sanzione prevista, ma ridotta, il tributo omesso, insufficiente o in ritardo e infine sommando anche gli interessi di mora.

Gli interessi di mora del ravvedimento operoso 2021 si calcolano in base al tasso legale, vale a dire al tasso effettivo 2021 fissato dal nuovo decreto MEF. Un tasso che rimane valido fino al 31 dicembre del 2021 e che risulta essere pari allo 0,01%. La formula esatta per effettuare il calcolo è la seguente:

Tasso ufficiale interessi di mora X € contributi X numero di giorni trascorsi dalla violazione / 36500

Il ravvedimento operoso 2021 può essere pagato mediante F24 (imposte sui redditi, imposte sostitutive, IRAP, IVA, imposta sugli intrattenimenti), F23 (tributi indiretti), F24 Elide (tributi connessi alla registrazione dei contratti di locazione e affitto di beni immobili).

Pace contributiva: cos’è, come funziona e chi può beneficiarne

La pace contributiva, da poco introdotta grazie ad una nuova legge, è una misura che permette di andare in pensione prima della scadenza del periodo previsto. Uno strumento che può essere utilizzato dai lavoratori più giovani, per riscattare fino a 5 anni di contributi, scaricando il costo delle tasse. In alcuni casi è previsto anche che l’onere di riscatto sia sostenuto dal datore di lavoro. La pace contributiva può essere utilizzata per andare a coprire vari versamenti di contributi mancanti tra l’anno di iscrizione all’INPS e l’ultimo anno in cui sono stati versati gli ultimi contributi. Gli anni riscattabili però non possono essere già oggetto di obbligo contributivo o coperti da altra contribuzione versata altre forme di previdenza obbligatoria. Il riscatto è inoltre rateizzabile senza interessi.

Pace contributiva: gli anni riscattabili

Esistono dei casi particolari e delle eccezioni alla pace contributiva, ma in linea generale gli anni riscattabili per quasi la totalità dei lavoratori sono:

  • anni di lavoro all’estero
  • corsi di laurea
  • corsi per diplomi universitari, di specializzazione
  • dottorati di ricerca
  • periodi di aspettativa non retribuita per assistenza e cura dei disabili, sino a un massimo di 5 anni
  • congedo familiare per gravi motivi (massimo due anni)
  • congedo parentale al di fuori del rapporto di lavoro (massimo 5 anni)
  • sospensione o interruzione del rapporto lavorativo (massimo 3 anni)
  • formazione professionale
  • studio e ricerca ed inserimento nel mercato di lavoro
  • intervalli tra lavori saltuari e discontinui (come quelli stagionali o temporanei)
  • intervalli tra un part-time e l’altro
  • servizio civile universale (sempre se non coperto da contribuzione obbligatoria

Pace contributiva

Pace contributiva: le forme assicurative previste

Secondo il decreto ministeriale di riferimento è quindi possibile riscattare, in tutto o in parte, anni di mancati versamenti contributivi. Per farlo sono state creare delle formule assicurative particolari:

  • assicurazione generale obbligatoria (AGO), a sua volta suddivisa in:
  1. fondo speciale degli addetti ad attività commerciali, o gestione speciale Commercianti
  2. fondo della previdenza degli artigiani
  3. sistema dei coltivatori diretti/imprenditori agricoli professionali, coloni e mezzadri
  • fondi esonerativi dell’AGO:
  1. ad esaurimento degli spedizionieri doganali (confluita nell’Inps a seguito della soppressione operata nel 1997)
  2. speciale dei lavoratori delle miniere, cave e torbiere
  3. ad esaurimento del consorzio autonomo del porto di Genova e Trieste
  4. speciale dei lavoratori dipendenti di ex-enti creditizi
  • forme sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria (Inpdap, Enpals…)
  • gestione separata

come già specificato, i periodi riscattabili non devono essere soggetti a diverso obbligo contributivo, né coperti da altre forme previdenziali. È possibile riscattare al massimo 5 anni di contributi.

I soggetti beneficiari

La pace contributiva non è aperta a tutti i lavoratori. La possono infatti richiedere e sfruttare solamente i lavoratori:

  • iscritti all’assicurazione generale obbligatoria, oppure ad altre forme sostitutive ed esclusive, o alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, o, ancora, alla gestione separata
  • non sono già titolari di pensione
  • sono privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995

In altre parole tutti quei lavoratori che contano contributi versati alla data del 31/12/1995, non possono beneficiarne. Allo stesso modo non ne beneficiano i lavoratori iscritti ad una o più casse professionali, oppure che non risultano essere registrati a nessuna gestione amministrata dall’INPS.

Pace contributiva: il calcolo

Gli anni da riscattare con il sistema della pace contributiva sono calcolati con il sistema contributivo. Ci sono quindi alcune regole generali che valgono per tutti i calcoli e le situazioni possibili:

  • ad ogni anno da riscattare va applicata l’aliquota vigente nella gestione previdenziale a cui appartiene l’iscritto (33% per i dipendenti), per il reddito imponibile degli ultimi 12 mesi
  • (imponibile ultimi 12 mesi X aliquota contributiva X numero anni da riscattare)
  • L’imponibile è da rapportare a mese, o settimana qualora non risultino annualità intere
  • quando l’imponibile è inferiore al reddito minimale, o non sono stati percepiti redditi, l’aliquota si applica sul minimale annuo.

Come già anticipato, l’onere del riscatto è rateizzabile, senza interessi, per un massimo di 120 rati, vale a dire 10 anni. Il datore di lavoro volendo può pagare tutto o parte del riscatto, devolvendo i premi di produzione  del lavoratore a tale scopo. In questo caso il costo può essere dedotto dal reddito d’impresa. Per il dipendente questo costo, non è comunque considerato un reddito imponibile.

Il versamento può avvenire in un’unica rata, oppure rateizzato in massimo 120 rate (10 anni). In caso di rateizzazione, ogni rata non può essere inferiore a 30€. Il costo del riscatto, infine, è detraibile nella misura del 50% dall’IRPEF. Questo è ripartito in 5 diverse quote annuali, costanti e di egual importo per ogni anno successivo.

Spese detraibili: cosa sono e quali sono quelle detraibili nel Modello 730

Quest’anno le dichiarazioni 730 vedono introdotta una significativa novità: le spese detraibili certificate. Si tratta di una iniziativa introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 che individua delle spese per cui è prevista una detrazione d’imposta del 19% in fase di dichiarazione dei redditi. A questa, di conseguenza, di applica l’obbligo della tracciabilità dei pagamenti in parola.

Spese detraibili: cosa sono

La Legge di bilancio 2020, articolo 1 comma 689 ha reso obbligatorio la tracciabilità delle spese detraibili al 19%. Questo significa che, affinché possano essere considerate spese detraibili certificate e comparire nel Modello 730, devono essere tracciate. In altre parole si tratta di spese pagate tramite un metodo di pagamento tracciato, verificabile dalle autorità giudiziarie (bonifico bancario, bonifico postale, carte di credito, carte di debito, assegni bancari o postali).

I pagamenti in contanti invece, anche se consentiti, non godono dell’agevolazione fiscale di detrazione del 19%.

Spese detraibili certificate: quali sono

Come specificato al paragrafo precedente, si tratta di spese sostenute attraverso un pagamento tracciato, controllabile dalle autorità giudiziarie. Tra queste, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, ricordiamo le spese:

  • assicurative
  • veterinarie
  • funebri
  • le spese sostenute dagli studenti fuori sede per affitti
  • spese sostenute per istruzione secondaria e universitaria

Ci sono poi alcune spese per le quali non si applica l’obbligo della tracciabilità, come ad esempio le spese sanitarie effettuate in farmacia (spese per farmaci da banco e dispositivi medici). Stesso discorso vale per le prestazioni sanitarie rese dalle strutture pubbliche o da strutture private accreditate al Servizio Sanitario Nazionale. Queste sono spese per cui è possibile beneficiare della detrazione fiscale al 19%, ma possono essere effettuate in contanti. L’obbligo non si estende nemmeno alle spese per cui è prevista una detrazione diversa da quella del 19% e agli oneri deducibili.

Documentazione da presentare

Se il pagamento della spesa sostenuta è stato effettuato in contanti, questa allora non potrà essere detratta, anche se si conserva la ricevuta, lo scontrino o la fattura.

Al contrario, come abbiamo visto, se la spesa è stata pagata tramite mezzo tracciabile, allora è detraibile, ma è necessario aver conservato la prova del pagamento.

Nel caso in cui il documento attestante la prova del pagamento venga a mancare, occorre un’apposita annotazione in fattura (ricevuta fiscale o documento commerciale) da parte del precettore delle somme che cede il bene o servizio. Questo difatti certifica di aver ricevuto denaro con pagamento tracciato. L’annotazione è obbligatoria sul documento di acquisto, mentre non può essere ammessa se integrata manualmente da parte dell’acquirente.

Quindi la documentazione da presentare è costituita da:

Su ciascuna di esse deve essere riportato codice fiscale, numero di partita IVA e codice fiscale del contribuente.

Spese detraibili

L’Amministrazione Finanziaria può richiedere, quando e se lo desidera, di esibire la documentazione che dimostri il diritto alle deduzioni e detrazioni richieste in dichiarazione. Per questo motivo è necessario conservare la documentazione originale per tutto il periodo di accertamento (vale a dire entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione).

Esempi di documentazione da presentare per aver diritto alla deduzione

Per l’acquisto di farmaci (anche omeopatici), comprati presso farmacie, supermercati e altri esercizi commerciali, o attraverso farmacie on-line, la documentazione da conservare e presentare è:

  • Fattura o scontrino fiscale (detto anche parlante) in cui devono essere specificati natura (farmaco o medicinale, OTC, ecc…), qualità (codice alfanumerico) e quantità del prodotto acquistato nonché il codice fiscale del destinatario
  • Per eventuali farmaci acquistati all’estero idonea documentazione (v. CM n. 34 del 2008)

Per le spese di prestazioni medico-generiche, specialistiche e spese veterinarie è necessario avere:

  • Ricevuta fiscale o fattura rilasciata dal medico o dallo specialista
  • Ricevuta relativa al ticket se la prestazione è resa nell’ambito del SSN

Per spese per prestazioni chirurgiche:

  • Ricevuta fiscale o fattura rilasciata dall’ospedale o dalla struttura inerente alle spese sanitarie le spese sanitarie sostenute per l’intervento chirurgico.

Nel caso di spese sostenute per degenze sanitarie:

  • Ricevuta fiscale o fattura rilasciata dall’ospedale o dalla casa di cura – devono essere escluse le spese inerenti ogni maggiorazione extra (come ad esempio: uso del telefono, o spese relative al letto aggiuntivo utilizzato da chi presta l’assistenza)

Cambiando tipologia di spesa, per interessi passivi (mutui per la costruzione/ristrutturazione dell’abitazione principale a partire dal 1998) occorre conservare e presentare:

  • Ricevute quietanzate dalla banca relative alle rate di mutuo pagate nell’anno d’imposta
  • Contratto di mutuo dal quale dovrà risultare che il finanziamento è stato concesso per la costruzione dell’abitazione principale o per l’effettuazione degli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 3, co. 1, lettera d) DPR n. 380 del 2001 dell’abitazione principale; in mancanza la motivazione può essere autocertificata
  • Autocertificazione che attesti che sussistono le condizioni richieste per la detraibilità in riferimento all’abitazione

Dichiarazioni 730 – cosa sono, quando si fanno, scadenze e compilazione

Le dichiarazioni 730 sono quelle riservate ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Dal 10 maggio di quest’anno sul sito dell’Agenzia delle Entrate (AdE) è disponibile il modello del 730 precompilato. A distanza di 15 giorni AdE consente ai contribuenti di scaricarlo, compilarlo e inviarlo in forma telematica. Per poter accedere all’area personale sul sito di AdE è necessario possedere le credenziali PIN dell’Agenzia delle Entrate, il PIN dell’INPS, oppure SPID o CIE. La compilazione di queste dichiarazioni offrono diversi vantaggi ai lavoratori. Prima fra tutti quella secondo la quale non è necessario eseguire i calcoli per poi ottenere il rimborso in busta paga, piuttosto che sulla rata della pensione. Al contrario, se dai calcoli, risultasse necessario effettuare dei pagamenti, questi sono trattenuti direttamente dalla retribuzione, piuttosto che dalla pensione stessa.

Quindi si tratta di modelli di dichiarazione dei redditi che devono presentare le persone fisiche. I modelli cambiano a seconda della tipologia di reddito posseduta (pensione, retribuzione da lavoro dipendente, ecc…).

Dichiarazioni 730: alternativa al Modello Unico

Il modello 730 è usato in alternativa al Modello Unico da tutti i contribuenti che devono dichiarare i seguenti redditi:

  • di pensione o di lavoro dipendente (compresi i redditi da collaborazione coordinata e continuativa e le indennità sostitutive di reddito di lavoro dipendente); i redditi di pensione o di lavoro dipendente (assieme alle trattenute fiscali e i contributi previdenziali) sono certificati nel CUD emesso dal datore di lavoro o dall’INPS
  • di terreni e fabbricati
  • a tassazione separata
  • di capitale
  • di lavoro autonomo per i quali non è richiesta la partita IVA (ad esempio prestazioni di lavoro autonomo non esercitate abitualmente)
  • redditi diversi (ad esempio redditi di terreni e fabbricati situati all’estero)

I titolari di partita IVA invece non devono usare il modello 730. Oltre a loro ci sono un’altra serie di soggetti esonerati dalla presentazione delle dichiarazioni 730:

  • contribuenti non residenti in Italia
  • eredi di contribuenti deceduti
  • tutti coloro i cui datori di lavoro non sono tenuti a versare le ritenute d’acconto (ad esempio, i lavoratori domestici come colf, giardinieri, ecc.)
  • i contribuenti con soli redditi da abitazione principale più eventuali altri fabbricati non locati
  • i contribuenti con soli redditi da lavoro dipendente o pensione a patto che il datore di lavoro/ente pensionistico abbia effettuato correttamente tutte le ritenute fiscali in busta paga
  • coloro che oltre ad aver percepito redditi da lavoro dipendente o pensione, posseggono anche la loro abitazione principale più altri eventuali fabbricati non locati

A differenza del modello Unico, le dichiarazioni 730 possono essere congiunte e contenere i redditi di entrambi i coniugi.

Dichiarazioni 730

Dichiarazioni 730: scadenze e modalità di presentazione

La scadenza fiscale entro la quale le dichiarazioni 730 devono essere presentate è il 30 settembre 2021. Il termine di trasmissione è sempre lo stesso. Mentre la data per l’erogazione del rimborso IRPEF spettante è differenziata in relazione al periodo di trasmissione della dichiarazione dei redditi.

Gli eventuali rimborso emersi dal calcolo del 730, sono erogati sulle retribuzioni di competenza del mese successivo a quello in cui il sostituto ha ricevuto la comunicazione di liquidazione, in altre parole il risultato del calcolo della dichiarazione dei redditi.

Da ricordare infine la data del 25 ottobre 2021, entro la quale è necessario per i lavoratori inviare l’eventuale dichiarazione dei redditi integrativa in caso di errori.

Rimborsi e conservazione

Abbiamo visto quindi che la data di rimborso, se previsto, arriva direttamente in busta paga a cadenza personalizzata. Nel caso in cui il 730 contenga i dati del sostituto d’imposta, allora il rimborso è accreditato a partire dalla busta paga del mese di luglio. Per i pensionati invece il rimborso va sulla rata della pensione a partire da quella del mese di agosto.

Se il modello 730 invece non contiene i dati del sostituto d’imposta, allora il rimborso è accreditato da parte dell’Agenzia delle Entrate entro fine anno, o all’inizio dell’anno successivo, direttamente sul conto corrente bancario del soggetto dichiarante.

Le dichiarazioni 730 devono essere obbligatoriamente conservate per almeno i 5 anni successivi dall’anno di presentazione (termine stabilito per l’accertamento). Per fare un esempio: la dichiarazione del 730 dell’anno 2018, va conservata fino al 31 dicembre del 2023.

Infine si ricorda che i contribuenti con partita IVA non possono fare dichiarazioni 730 nemmeno se avessero percepito anche un reddito da lavoro dipendente o da pensione. Devono per forza fare il modello REDDITI (ex Modello Unico).

Dazi doganali: cosa sono, come sono calcolati e quando non si applicano

Nel precedente articolo: “Bolletta doganale: cos’è e come funziona abbiamo visto cos’è e a cosa serve una bolletta doganale. In pratica si tratta di un documento che serve a confermare e certificare alle autorità competenti, il pagamento dei dazi doganali. Il dazio è la richiesta di pagamento per lo scambio merci tra paesi, più o meno vicini, più antico che si conosca. Già oltre 2000 anni fa i popoli ne esigevano il pagamento. Oggi invece, la definizione più comune è quella secondo la quale i dazi doganali sono delle imposte indirette applicate sul valore di tutti i prodotti importati ed esportati dal Paese che l’impone. In Europa i dazi sono richiesti per il pagamento di tutti i prodotti che provengono o sono diretti, in paesi che non fanno parte della CEE (Comunità Economica Europea). Quindi, in altre parole, i dazi doganali sono applicati a qualunque (o quasi) merce acquistata e proveniente dall’estero.

Dazi doganali: un po’ di storia

Come abbiamo detto, hanno un’origine molto antica. Durante il Medioevo, ad esempio, rappresentavano una delle entrate fiscali più alte ed importanti. In quel periodo i dazi erano applicati alla merce che transitava addirittura da un Comune all’altro. Con il passare del tempo, durante alcune particolari epoche, i dazi furono sospesi. Questo accorgimento venne adottato grazie ad una diversa organizzazione amministrativa del territorio e, visto che gli scambi commerciali andavano aumentando, la sospensione si rese necessaria, per evitare di gravare troppo sul transito della merce.

Dal 1600 i dazi interni sono ridotti drasticamente. Grazie a questa manovra, le dottrine economiche liberali, riescono a garantire una maggiore libertà di circolazione delle merci. A quel punto l’applicazione delle tasse doganali si applica esclusivamente quando la merce passa da una dogana all’altra sui confini dei vari Stati.

A cosa servono veramente

Non c’è un’unica vera ragione. Ne esistono molteplici, che spingono i vari Stati ad applicare ciascuno i propri dazi doganali. In alcuni casi, ad esempio, quando i dazi sono applicati in misura particolarmente alta su merce costosa e di pregio, il pagamento è richiesto in via cautelare per proteggere il consumatore. Infatti gli addetti della dogana devono eseguire degli attenti e accurati controlli  sull’origine dei prodotti.

In altri casi invece le autorità doganali devono controllare eventuali regole che disciplinano la circolazione della merce, la presenza o meno di autorizzazioni o divieti all’importazione e certificazioni. In questo caso il dazio compensa il controllo che mira ad individuare merce pericolosa di cui è vietata l’importazione (armi, stupefacenti, specie animali o vegetali protette, ecc…).

Ma non è sempre e solo una questione di controllo e tutela. Anzi, il più delle volte i dazi doganali sono introdotti dai vari Stati pe ragioni politiche. Ragioni che si traducono nel voler provare a proteggere settori produttivi interni che NON sono in grado di concorrere con i mercati stranieri. Quando però questo sistema è applicato sistematicamente, per cercare quindi di proteggere la produzione interna, allora è il caso di parlare di protezionismo.

I dazi doganali infine possono essere applicati anche alle esportazioni (merce in uscita dal paese). Questo avviene soprattutto quando un paese è particolarmente ricco di un determinato prodotto e deve incrementare le entrate fiscali.

Dazi doganali: il calcolo

Esistono tre diversi metodi per calcolare i dazi doganali:

  • sul valore della merce trasportata che risulta dalla fattura elettronica, al netto o al lordo delle spese di trasporto (valore della merce + nolo Extra UE – nolo=spesa di trasporto)
  • sulla quantità di merce trasportata espressa in una precisa unità di misura
  • sommando al primo metodo il secondo

Esiste una classificazione ben precisa della merce trasportata, che rientra tutta nelle tabelle online disponibili sul TARIC. Quest’ultimo è lo strumento utilizzato per calcolare i dazi doganali sulla merce importata. La merce è classificata per codici che ne identificano la natura e le caratteristiche, dalle quali, a loro volta, dipende il calcolo delle tasse alla dogana. Quindi ad ogni codice corrispondono precisi obblighi, disposizioni e tariffe doganali.

Sbagliare un codice significa trovare un’errata associazione tra categoria merceologica e merce trasportata. Questo può portare a inconvenienti che vanno dalla semplice sanzione amministrativa, al blocco della merce. 

Dazi doganali

Classificazione doganale delle merci

Ad ogni merce è assegnato un preciso codice numerico. Si tratta di una raccolta in 21 sezioni e 99 capitoli. Ogni codice è composto da 10 cifre e ogni parte del codice ha una specifica funzione:

  • le prime sei cifre del codice indicano le voci e le sottovoci del sistema armonizzato (SA – 1 e 2 identificano il capitolo, 3 e 4 la voce di tariffa del SA, 5 e 6 si riferiscono alla sottovoce).
  • le successive due si riferiscono invece alle sotto-voci relative alla suddivisione comunitaria della nomenclatura combinata (NC)
  • le ultime due invece identificano le sotto-voci del codice Taric

A questo schema si possono aggiungere ulteriori 4 cifre che servono a identificare il codice addizionale Taric, relativo a determinate categorie merceologiche oppure categorie soggette a dazi compensatori.

Unione Europea e Dazi doganali

La nascita del Mercato Unico Europeo ha cambiato la terminologia in fatto di dazi doganali. Difatti non si parla più di “dazi”, ma di “merce proveniente da paesi che non fanno parte dell’Unione Europea”. Quindi il dazio doganale, infatti, come anticipato, è un’imposta di consumo che grava sui prodotti che vengono importati da paesi terzi.

Dichiarazione IVA: tutti i soggetti esonerati nel 2021

La dichiarazione IVA è presentata ogni anno da tutti quei contribuenti titolari di partita IVA che esercitano attività d’impresa o di lavoro autonomo. Attraverso la dichiarazione IVA i soggetti comunicano ad Agenzia delle Entrate (AdE) ogni operazione eseguita nel corso dell’anno che ha impatto ai fini IVA. Ci sono però molti soggetti esonerati da questo obbligo.

Dichiarazione IVA: soggetti obbligati

Tra i soggetti titolari di partita IVA obbligati a presentarla ogni anno, ricordiamo le attività:

  • d’impresa
  • artistiche o professionali
  • associazioni sportive dilettantistiche
  • associazioni culturali non riconosciute che non hanno scelto le disposizioni della legge n°398/1991
  • tutti i soggetti che hanno optato per l’applicazione IVA in regime ordinario
  • eredi
  • curatori fallimentari
  • società incorporanti
  • società beneficiarie in caso di scissione

La dichiarazione IVA è obbligatoria in ogni caso, anche quelli in cui, nel 2020, i soggetti precedenti:

  • non abbiano effettuato operazioni in regime IVA
  • non erano tenuti al versamento dell’imposta
  • hanno effettuato operazioni non imponibili
  • hanno eseguito operazioni non soggette
  • non hanno svolto alcuna attività

Dichiarazione IVA

Dichiarazione IVA: i soggetti esonerati nel 2021

Visti i soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione IVA, elenchiamo adesso tutti quelli che possono non presentarla:

  • Soggetti che durante il 2020 hanno eseguito operazioni esenti
  • Contribuenti in regime forfettario e contribuenti minimi
  • Contribuenti rientranti nel regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità
  • Produttori agricoli con volume di affari inferiore a 7000€
  • Esercenti di attività di organizzazione di giochi
  • Imprese individuali che hanno dato in affitto l’unica azienda
  • Soggetti passivi d’imposta non residenti
  • Enti non commerciali, società sportive;
  • Soggetti domiciliati o residenti fuori dall’Unione europea
  • Raccoglitori occasionali di prodotti selvatici non legnosi di cui alla classe ATECO 30
  • raccoglitori occasionali di piante officinali spontanee, con volume d’affari dell’anno precedente inferiore a 7000€
  • Giornalai – tabaccai che hanno effettuato solo operazioni non rilevanti ai fini IVA

Soggetti che svolgono attività d’intrattenimento

Le attività d’intrattenimento che sono assoggettate ad imposte sugli intrattenimenti, che scontano l’IVA in modo forfettario sono:

  • Esecuzioni musicali di qualunque genere
  • Attività che impiegano biliardi, elettrogrammofoni, biliardini, apparecchio o congegno a gettone, moneta, o a scheda, da divertimento o trattenimento, anche se automatico o semiautomatico, installati sia nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia nei circoli o associazioni di qualsiasi specie, gioco del bowling, noleggio di go-kart
  • Sale giochi o attività di scommesse
  • Esercizio del gioco nelle case da gioco

Regime forfettario, contribuenti minimi e dichiarazione IVA

Come detto nel paragrafo precedente, i soggetti in regime forfettario e contribuenti minimi non hanno l’obbligo di presentare dichiarazione IVA. Quindi sono esonerati agli effetti IVA:

  • Obbligo di fatturazione, registrazione e liquidazione d’imposta
  • Versamento imposta periodica ed annuale
  • Presentazione della dichiarazione IVA
  • Obbligo redazione e conservazione registri IVA

Dichiarazione IVA: termini e sanzioni

La dichiarazione IVA deve quindi essere presentata nel periodo compreso tra il 1° febbraio e il 30 aprile. Il riferimento deve essere fatto all’anno d’imposta precedente. Non è invece previsto un termine di consegna agli intermediari che devono trasmettere telematicamente ad AdE.

In caso di presentazione tardiva entro 90 giorni dalla scadenza, la dichiarazione IVA è comunque ritenuta valida, ma sono applicate delle sanzioni. Le sanzioni previste da legge, in questo caso, hanno un valore compreso tra i 250€ e i 2000€. Per evitare la sanzione, il contribuente assieme alla presentazione tardiva può presentare anche il ravvedimento operoso.

In caso invece di omesso versamento, la sanzione applicata è pari al 30% dell’imposta non versata.

Risulta quindi chiaro quanto sia importante capire e sapere quando è obbligatorio presentare dichiarazione IVA, per evitare di incappare in eventuali sanzioni.

Le dichiarazioni IVA presentate oltre 90 giorni dalla scadenza, sono considerate omesse. Nonostante questo però costituiscono ugualmente titolo per la riscossione dell’imposta. Oltre questa scadenza quindi sono previste altre sanzioni, nelle seguenti forme:

  1. Dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di euro 250,00, in presenza di debito d’imposta
  2. Da 250,00 euro a 2.000,00 euro, se il soggetto effettua esclusivamente operazioni per le quali non è dovuta l’imposta

Diritto camerale: calcolo e pagamento alla Camera di Commercio

Il diritto camerale è una prestazione dovuta ogni anno alle varie Camere del Commercio da parte di tutte le imprese iscritte o annotate al Registro delle imprese. Si tratta di un diritto dovuto in base alla sede legale dell’impresa. Questo significa che l’impresa paga la Camera di Commercio (unità locali, sede secondarie o uffici di rappresentanza) della località dove ha sede legale. In caso le sedi si trasferiscano, allora il diritto va pagato alla Camera di Commercio in cui è ubicata la sede legale dal 1° gennaio dell’anno in corso.

Diritto camerale: soggetti obbligati e soggetti esonerati

Ci sono alcuni soggetti obbligati a pagare il diritto camerale ogni anno. Tra questi vanno ricordati:

  • Società a responsabilità Limitata (unipersonali)
  • Società per Azioni
  • Imprese individuali
  • Società in accomandita per azioni
  • Società di persone (in nome collettivo e in accomandita semplice)
  • Imprese agricole
  • Imprese non agricole
  • Cooperative
  • Consorzi
  • Enti economici pubblici
  • Enti economici privati
  • Aziende speciali e consorzi previsti dalla Legge n 267/00
  • Imprese estere con sedi locali in Italia
  • Società consortili a responsabilità limitata per azioni

Non tutte le imprese però sono assoggettate a questo obbligo. L’onere del pagamento, ad esempio, non grava su:

  • società per le quali è stato adottato un provvedimento fallimentare (salvo esercizio provvisorio di attività)
  • imprese per le quali è stata adottata una liquidazione amministrativa (salvo esercizio provvisorio di attività)
  • imprese individuali che hanno dichiarato e cessato l’attività al 31 dicembre dell’anno precedente e che hanno presentato la cancellazione al Registro delle Imprese entro e non oltre il 30 gennaio dell’anno corrente
  • società ed enti collettivi con bilancio finale di liquidazione già approvato e che hanno presentato domanda di cancellazione dal Registro Imprese sempre entro il 30 gennaio dell’anno in corso
  • Cooperative nei confronti delle quali le Autorità Giudiziarie, hanno adottato provvedimenti di scioglimento

Diritto camerale

Diritto Camerale per più unità locali

Le imprese che esercitano la propria attività in diverse unità locali dislocate in differenti zone del territorio, sono tenute a pagare il diritto camerale ad ogni Camera di Commercio nel cui territorio ha sede l’unità locale stessa. L’importo dovuto è pari al 20% di totale che corrisponde la sede centrale. Il pagamento è da eseguirsi utilizzando un modello F24 dove, ogni unità locale, deve occupare un singolo rigo per la quale dovranno essere indicati gli importi dovuti, la sigla della provincia di appartenenza, l’anno di riferimento e il codice tributo 3850.

Termine di pagamento e scadenze

Il termine di pagamento del diritto camerale coincide con la scadenza del primo acconto delle imposte sui redditi. Esistono delle eccezioni. Infatti per tutte quelle imprese che determinano l’importo dovuto per il diritto camerale, in base a precisi scaglioni di fatturato e le ditte che hanno approvato il bilancio entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio sociale, devono pagare entro:

  • 30 giugno – per il pagamento senza 0,40%
  • 30 luglio – per il pagamento con 0,40%

Inoltre le società che approvano il bilancio oltre i quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, devono versare il diritto camerale entro il 16 del mese successivo a quello di approvazione.

Infine, i soggetti che non approvano proprio il bilancio entro i termini stabiliti da legge, devono pagare il diritto camerale entro il 30 del mese successivo a quello in cui avrebbero dovuto approvare il bilancio stesso.

Quando le scadenza non sono rispettate, i soggetti possono comunque pagare entro il trentesimo giorno successivo alla scadenza, versando una somma maggiorata dello 0,40%. Se anche questa nuova scadenza non dovesse essere rispettata, il soggetto potrà comunque provvedere al pagamento entro un anno, avvalendosi del ravvedimento operoso.

Diritto camerale: come pagarlo

Il diritto camerale si paga versandolo in un’unica soluzione. Si paga utilizzando un modello F24. Su questo va sempre indicato il codice tributo 3850 nella sezione IMU ed altri tributi locali.

Il diritto annuale deve essere versato con arrotondamento all’unità di euro secondo le modalità indicate dalla nota MISE 3.3.2009 n. 19230.

Cosa succede quando non si paga il diritto camerale

I soggetti che non pagano il diritto camerale non possono ottenere le certificazioni da parte dell’Ufficio del Registro delle Imprese. Questo significa che chi non ha provveduto a pagare il diritto camerale non può ottenere alcun certificato da parte del sistema informatico nazionale delle Camere di Commercio.

Le imprese che non pagano, non hanno versato un importo sufficiente, oppure versano in ritardo, si possono avvalere del ravvedimento operoso. In questo caso il pagamento è sempre effettuabile con modello F24, ma stavolta i codici tributo da riportare sono:

  • 3852 per la sanzione, dovuta al ritardo del pagamento
  • 3851 per gli interessi.