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Responsabilità del commercialista: chi paga se sbaglia?

Il rapporto tra un dottore commercialista e un cliente, è uno dei più importanti e delicati che possano esistere nel mondo del business. I dottori commercialisti, così come gli esperti contabili, hanno delle responsabilità nei confronti dei propri clienti. Responsabilità che riguarda la consulenza prestata e le attività svolte in favore della propria clientela. In Italia questa materia è addirittura oggetto di normativa. La responsabilità del commercialista si configura quando il professionista, volontariamente o involontariamente non si attiene alla diligenza professionale.

L’attività del commercialista rientra nell’ambito delle professioni intellettuali. Il rapporto che si instaura tra commercialista e cliente è ritenuto un contratto d’opera intellettuale ed è disciplinato dagli articoli 2229 e seguenti del Codice Civile.

Alla base di questo rapporto non c’è l’obbligo da parte del commercialista di raggiungere l’obiettivo voluto dal cliente, c’è invece l’impegno a prestare diligentemente la propria opera. Questo significa che il commercialista deve adoperarsi al meglio per prestare la propria opera. Opera che assume un’obbligazione di mezzi e non di risultato.

Responsabilità del commercialista: art. 1176 comma 2 del Codice Civile

L’articolo 1176 comma 2 del Codice Civile cita:

 “…  Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

Questo significa che, quando il commercialista è chiamato ad esercitare la propria professione, deve farlo applicando e utilizzando una diligenza pari o superiore a quella ritenuta standard per l’adempimento delle sue mansioni. In caso contrario potrebbe essere ritenuto responsabile per negligenza e, di conseguenza, condannato all’eventuale risarcimento del danno causato.

Nello svolgere la propria attività il commercialista deve usare lealtà, correttezza e competenza. Deve inoltre rispettare la legge e il codice deontologico della propria categoria professionale. Non può e non deve accettare incarichi se le proprie competenze non sono all’altezza del compito da svolgere. È obbligato ad informare i propri clienti sulle varie difficoltà e i rischi che l’attività svolta comporta. Infine deve svolgere l’incarico con cura e perizia professionale.

I limiti della propria competenza

Una sentenza della Corte di Cassazione, per l’esattezza la n°13007 del 23 giugno 2016, ha stabilito un’importante caratteristica affinché un commercialista possa ritenersi e definirsi “diligente” e, di conseguenza, esente da responsabilità. La sentenza ha stabilito che il professionista deve sempre e comunque dichiarare al cliente la propria competenza tecnica. In altre parole la responsabilità del commercialista dipende anche dal riconoscimento delle proprie capacità. Se non si ritiene in grado di soddisfare una specifica richiesta di un cliente, deve comunicarglielo e consigliargli di rivolgersi ad altro professionista.

Nella sentenza della Corte di Cassazione n°11213 del 9 maggio del 2017, il tribunale stabilì:

“la responsabilità del prestatore di opera intellettuale, nei confronti del proprio cliente, per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova, da parte di costui, del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente, formando oggetto di un accertamento che non è sindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivato”.

Da parte sua invece il professionista, per uscire indenne dalla responsabilità, ha l’onere di provare di aver adempiuto ai propri obblighi rispettando gli standard di diligenza che la norma prevede ed impone.

Responsabilità del commercialista

Conclusioni

Tirando le somme è quindi possibile affermare che un dottore commercialista non è obbligato a ottenere il risultato richiesto dal cliente, è invece obbligato a svolgere la propria attività diligentemente secondo il proprio mandato. Successivamente all’esecuzione dello stesso è altresì obbligato a svolgere tutte le attività conseguenti e connesse affinché sia preservata l’utilità della prestazione svolta nell’interesse del cliente.

È inoltre obbligato a valutare oggettivamente le proprie competenze tecniche specifiche in funzione delle richieste inoltrate. Questo significa che è obbligato a consigliare il cliente a rivolgersi ad altro professionista nel caso non sia in grado di assolvere alle necessità richieste dal cliente.

Responsabilità del commercialista per la consulenza fiscale

Per quanto riguarda invece la responsabilità del commercialista in ambito di consulenza fiscale e ricorsi tributari, vanno distinti:

  1. danno risarcibile
  2. nesso causale tra condotta del professionista e danno subito.

Si tratta di materia delicata e di un settore piuttosto border line. Per danno risarcibile di norma si intendono i maggiori oneri che il cliente è costretto a sostenere. Oneri nei confronti dell’amministrazione finanziaria come conseguenza di uno o più errori commessi dal dottore commercialista. In altre parole il danno risarcibile è quantificabile nelle sanzioni e negli interessi dovuti sulle imposte non versate.

Per quanto riguarda invece il “nesso causale” per un’errata e/o mancata impugnazione di un accertamento fiscale, questa è stimabile solo a seguito di una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole del ricorso.

Agenzia delle entrate e riscossione: cos’è e come funziona

Equitalia era una società italiana incaricata alla riscossione dei tributi su tutto il territorio nazionale, ad eccezione della Sicilia. A questa società partecipavano Agenzia delle Entrate (con una quota pari al 51%) e l’INPS (quota pari al 49%). Dal primo luglio 2017, Equitalia non esiste più. L’unica società del gruppo che è ancora attiva è Equitalia Giustizia. Il gruppo è stato sostituito da Agenzia delle entrate e riscossione. Si tratta di un ente pubblico economico strumentale dell’Agenzia delle Entrate che, per semplificare, possiamo dire che oggi gestisce le vecchie cartelle Equitalia.

Decreto legge n. 193/2016

A partire dal 30 giugno 2017 il gruppo Equitalia non esiste più. Al suo posto oggi, abbiamo Agenzia delle Entrate e Riscossione (Aer). Questa è subentrata nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche di natura processuale, grazie al decreto legislativo n° 193/2016.

Aer è diventata pertanto agente di riscossione. Il suo ruolo è quello di occuparsi dell’attività di esazione a livello nazionale, a eccezione sempre della regione Sicilia. Nel decreto sono specificate le varie funzioni necessarie a svolgere le attività di riscossione.

Il personale in servizio dell’Equitalia, al momento del trasferimento, ha mantenuto la propria posizione giuridica, economica e previdenziale. Prima però i dipendenti sono stati controllati per verificare che “… La ricognizione delle competenze possedute, ai fini di una collocazione organizzativa coerente e funzionale alle esigenze dello stesso ente.”

Agenzia delle entrate e riscossione: struttura e organizzazione

Agenzia delle entrate e riscossione è composta da:

  1. Presidente (che corrisponde al Direttore dell’Agenzia delle Entrate)
  2. Comitato di gestione
  3. Collegio dei revisori dei conti (il cui Presidente è scelto tra i magistrati della Corte dei Conti).

Il presidente di Aer oltre a essere il Direttore dell’Agenzia delle Entrate è anche il soggetto che compone il Comitato di gestione. Si tratta di cariche gratuite che non prevedono rimborsi spese, compensi o indennità.

Agenzia delle Entrate e Riscossioni è direttamente controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Si tratta, come abbiamo già specificato, di un organismo strumentale di Agenzia delle Entrate, che rimane titolare della riscossione nazionale.

Agenzia delle entrate e riscossione

Qual è lo scopo di Agenzia delle entrate e riscossione

Questo organismo è stato creato per migliorare e facilitare i processi di riscossione a livello nazionale. Aer è stato composto pensando a soddisfare le esigenze di economicità di gestione della riscossione in tutto il paese. Inoltre, rispetto alla vecchia Equitalia, è stata posta maggiore attenzione alla soddisfazione dei soggetti che si avvalgono dei suoi servizi. Con Aer è stato auspicato un aumento degli importi riscossi, una maggiore incentivazione alle azioni di prevenzione e di contrasto all’evasione fiscale. Questo organo, assieme alla fatturazione elettronica e allo scontrino elettronico è uno dei tanti strumenti adottati per combattere la dilagante piaga dell’evasione fiscale in Italia.

Agenzia delle entrate e riscossione: cosa può fare

Dal primo ottobre 2011 gli avvisi di accertamento emessi da Agenzia delle Entrate, ai fini delle imposte sui redditi, IVA e IRAP, sono “esecutivi”. Questo perché contengono l’intimazione ad adempiere al pagamento degli importi indicati, nei termini previsti. Questi avvisi di accertamento diventano esecutivi trascorsi 30 giorni, periodo messo a disposizione per presentare eventuale ricorso.

Aer informa l’utente con raccomandata semplice o con posta elettronica, di aver preso in carico la riscossione delle somme. L’esecuzione forzata è comunque sospesa per un periodo di 180 giorni dalla data di tale affidamento. Questa sospensione non vale nel caso di accertamenti definitivi e nel caso di recupero di somme derivanti da decadenza dalla rateizzazione.

Allo stesso modo, dal primo gennaio 2011, avvengono gli avvisi di addebiti notificati dall’INPS. Gli avvisi hanno quindi valore di titolo esecutivo per la riscossione che sostituisce in tutto e per tutto la classica vecchia cartella di pagamento.

Cos’è l’iscrizione a ruolo

Si tratta dell’inserimento di un contribuente nell’elenco dei debitori, creato dall’ente creditore (Agenzia delle Entrate, INPS, comuni, ecc…). Sono iscritti a ruolo i soggetti intimati da Aer al pagamento di tributi, altre entrate, sanzioni e interessi. Con questa iscrizione l’ente incarica l’agente di riscossione (agenzia delle entrate e riscossione) a richiedere il pagamento di quanto dovuto. Questa operazione avviene attraverso l’invio della cartella di pagamento o, in fase di riscossione volontaria, di un avviso di pagamento.

La cartella di pagamento è notificata dal messo notificatore.

Contributo a Fondo Perduto: il più ambito finanziamento per le PMI

Le PMI sono sempre in cerca di finanziamenti per ampliare, migliorare e consolidare la propria realtà. Che si tratti di una società avviata, piuttosto che una start up innovativa, riuscire a trovare finanziamenti è molto importante. Per accedere a bandi e incentivi nazionali, regionali e/o europei è necessario seguire determinate procedure. Non tutti i fondi si richiedono con lo stesso iter e soprattutto sono erogati con diverse modalità. Il contributo a fondo perduto, ad esempio, è uno dei più ambiti dalle imprese e permette di acquistare prodotti, servizi e beni, senza dover poi preoccuparsi di pagare interessi sui prestiti e i mutui ricevuti.

Contributo a Fondo Perduto: cos’è e come funzionano

Il contributo a fondo perduto è un’agevolazione erogata dall’ente pubblico all’azienda, che non prevede alcun tipo di rimborso. In altre parole l’ente erogatore (che può essere la Regione, la Camera di Commercio, il Ministero, ecc…) elargisce un importo in denaro, senza chiedere nulla in cambio. Si tratta quindi di una sorta di aiuto economico che viene dato alle piccole/medie imprese per comprare beni/servizi necessari alla crescita, allo sviluppo e alla digitalizzazione dell’attività.

Contributo a fondo perduto: il calcolo

Nel contributo a fondo perduto è solitamente fissato un tetto massimo di importo erogabile, che non può essere superato. Il calcolo per determinare l’importo erogabile si base sul totale delle spese ammissibili al bando stesso.

Difficilmente questa tipologia di contributo copre il 100% delle spese presentate dall’azienda. Solitamente la copertura va da un 40% all’80%. Quello che rimane è a carico della società che ha richiesto il contributo. La società in questo caso deve essere in grado di dimostrare di poter coprire tutte le rimanenti spese, con i propri capitali (prestati o già in possesso). Analogo al contributo a fondo perduto è il contributo in conto capitale.

Una specifica molto importante. In Italia, il contributo a fondo perduto, non è soggetto a IVA (imposta valore aggiunto), anche in caso di erogazioni condizionate.

Condizioni e restrizioni

Gli interventi a fondo perduto sono solitamente soggetti a determinate condizioni stabilite dall’ente erogante. Queste, ad esempio, possono includere:

  • indicazioni sugli interventi possibili
  • prescrizione di determinati utilizzi del capitale concesso
  • facoltà di controllo e verifica dell’utilizzo del capitale erogatore

L’ente può inoltre stabilire di poter annullare l’intervento, oppure richiedere addirittura la restituzione del capitale in caso di utilizzi diversi da quelli oggetto della condizione.

Contributo a Fondo Perduto

Alternative al contributo a fondo perduto

Le agevolazioni a fondo perduto non sono le uniche alle quali le PMI possono accedere. Le Regioni ad esempio utilizzano molto “il finanziamento agevolato”. In questo caso l’ente pubblico eroga l’agevolazione prevista, ma la società deve pagare un piccolo interesse, che solitamente si aggira attorno allo 0,5% (in alcuni casi è addirittura inferiore).

In altre parole l’ente pubblico eroga una determinata somma di denaro, per permettere alla PMI di acquistare beni/servizi, attraverso un finanziamento che prevede un tasso agevolato inferiore a quello di mercato. A differenza del contributo a fondo perduto, il finanziamento agevolato copre tutte (o quasi)le spese presentate dall’azienda e ammissibili al bando.

Il vantaggio per una società nel richiedere un finanziamento agevolato è nella differenza degli interessi da pagare. Il tasso applicato, solitamente, è compreso tra lo 0% e lo 0,5%. Un bando che usa soprattutto la forma di finanziamento agevolato, è il fondo rotativo.

Contributo in conto interessi: cos’è e come funziona

Alternativa al contributo a fondo perduto, quello in conto interessi è una forma agevolata di incentivo che copre solamente la quota interessi che un’azienda paga su un mutuo o un prestito. In questo caso l’importo erogabile non è calcolato sulla base del valore del bene/servizio acquistato, ma sull’ammontare degli interessi passivi pagati sul prestito.

Si tratta di una forma molto particolare di agevolazione che risulta particolarmente vantaggiosa per tutte le imprese che hanno acceso un mutuo o un prestito elevato.

Credito d’imposta

Altra forma di agevolazione riconosciuta alle PMI. Lo Stato centrale e le amministrazioni territoriali o locali, sono solite utilizzare questa forma di agevolazione per aiutare le imprese. Il credito d’imposta non è un finanziamento. Si tratta infatti di acquisire o generare un credito che permette di pagare meno tasse o contributi. Il credito d’imposta può essere destinato a compensare debiti, diminuire le imposte, oppure a chiederne il rimborso (quando ammesso) in sede di dichiarazione dei redditi.

Stato patrimoniale e conto economico: definizione e differenze

Qualche articolo fa abbiamo iniziato a conoscere e a definire cos’è il Bilancio d’esercizio. In linea di massima, possiamo affermare che si tratta di un insieme di documenti che un’impresa è obbligata a redigere per definire la propria situazione patrimoniale e finanziaria, nonché il risultato economico d’esercizio. É composto da cinque diversi documenti: lo Stato Patrimoniale, il Conto Economico, il rendiconto finanziario, la Nota Integrativa e la relazione sulla gestione. Sviscerato l’argomento “Rendiconto finanziario”, passiamo adesso a definire e capire lo Stato Patrimoniale e conto Economico.

Stato patrimoniale e conto economico: cosa sono e a cosa servono

Stato Patrimoniale e Conto Economico rappresentano i principali prospetti contabili del Bilancio d’esercizio e tra i due esistono dei collegamenti. Entrambi sono indispensabili nella contabilità aziendale. I dati che i due documenti contengono devono essere d’aiuto a ogni analista economico-finanziario, per giudicare correttamente lo stato di “salute” di un’impresa. L’analisi di questi due documenti deve portare a un giudizio obiettivo sulla situazione patrimoniale, finanziaria e reddituale d’impresa.

Stato patrimoniale

È il documento che rappresenta la situazione del patrimonio aziendale in un determinato momento di vita dell’impresa. Solitamente questo “momento”, coincide con la fine dell’anno solare (31 Dicembre) e nello stato patrimoniale sono riportate tutte le attività, le passività e il patrimonio netto d’impresa.

Finanziariamente questo significa che l’analisi del patrimonio di una società serve a capire se l’azienda è in grado di mantenere un corretto equilibrio patrimoniale e finanziario. Quindi le “attività” si identificano come i mezzi finanziari impiegati dalla ditta. Mentre le passività e il patrimonio netto sono da intendersi come fonti di finanziamento di tali impieghi.

Conto Economico

Si tratta del documento facente parte del Bilancio d’Esercizio che riassume l’insieme delle operazioni aziendali che hanno contribuito a determinare il risultato economico finale di un certo esercizio, comprende i costi e i ricavi di un’azienda.

Stato patrimoniale e conto economico

Le due sezioni contrapposte dello stato patrimoniale

Lo Stato patrimoniale definisce il patrimonio di un’azienda in un preciso momento. Inoltre definisce i diritti dei terzi che gravano sull’attività stessa. Si suddivide in:

  • Attivo
  • Passivo

L’attivo comprende il magazzino, le immobilizzazioni, le disponibilità liquide e i crediti. Si identifica come la somma di tutti gli investimenti eseguiti da un’impresa per svolgere al meglio la propria attività

Il passivo invece comprende le riserve, il capitale sociale, gli utili e le perdite dell’esercizio riportati a nuovo, ossia i debiti a breve, medio e lungo termine. In altre parole rappresenta i mezzi propri o di terzi, di cui si è dotata l’azienda per finanziare gli investimenti in modo da svolgere al meglio la propria attività.

Conto Economico: componenti positive e negative di reddito

Il conto economico è quindi l’insieme di tutte le operazioni che l’azienda ha compiuto per arrivare a un determinato risultato economico. É formato da due componenti: positivi e negativi di reddito, che si riferiscono sempre a un determinato periodo temporale.

In altre parole il conto Economico è formato da due voci:

  1. Ricavi – corrispondono alle vendite dei propri beni, agli interessi attivi o ai fitti attivi.
  2. Costi – riguardano gli acquisti, le utenze, le spese del personale, i fitti passivi, le imposte (IRAP, IRPEF, IRES) e le tasse. Tra quest’ultime l’IVA non è considerata un costo per la società. L’IVA infatti rappresenta un debito e al tempo stesso un credito che l’azienda ha nei confronti dell’Erario. Per questo motivo, a seconda del momento preso in esame, la voce IVA si potrebbe trovare da una parte o dall’altra del conto economico.

Documenti indispensabili per una gestione responsabile

Stato patrimoniale e conto economico sono documenti indispensabili per raggiungere una gestione responsabile delle risorse di una società e in generale della sua amministrazione complessiva.

Entrambi i documenti sono necessari alla definizione della situazione finanziaria, utilizzata poi per determinare il carico fiscale. Inoltre stato patrimoniale e conto economico servono anche a fornire tutti i dati aziendali all’erario. Questi documenti servono a fornire una misura tangibile di tutte le operazioni fatte durante il corso dell’anno solare. In base ai dati contenuti in essi, un’attività si rende conte se è necessario un miglioramento, oppure se è possibile continuare sulla stessa strada.

Aprire una partita IVA: procedura e costi da sostenere

L’apertura di una nuova attività prevede una serie di regole da rispettare e vari elementi da valutare. Aprire una partita IVA richiede impegno economico e un calcolo preciso di tutti i vantaggi e gli svantaggi a cui potrebbe portare. L’apertura in se per se non è molto difficile, ma richiede qualche passaggio che deve essere seguito alla lettera. Decidere di “mettersi in proprio” e non essere un dipendente a stipendio fisso mensile però, comporta delle responsabilità alle quali non è possibile sottrarsi. Obblighi previdenziali e regolari tasse da pagare. Vediamo quindi come fare per aprire una partita IVA, chi può farlo, quanto costa e quali sono le spese da sostenere.

Aprire una partita IVA: i passaggi da seguire

La partita IVA è una sequenza di 11 cifre che identifica, in modo inequivocabile, un soggetto che esercita un’attività. La partita IVA è importante ai fini dell’imposizione fiscale diretta (IVA). La partita IVA è composta da una sigla dello stato di appartenenza (nel caso dell’Italia corrisponde a IT), le prime 7 cifre indicano invece il contribuente, i 3 numeri seguenti indicano il Codice dell’Ufficio delle Entrate e, infine, l’ultimo numero ha carattere di controllo.

In Italia la partita IVA è rilasciata dall’Agenzia delle Entrate (AdE). Il numero assegnato rimane invariato per tutto il periodo in cui è svolta l’attività e vale sull’intero territorio nazionale.

La partita IVA si apre inoltrando richiesta telematica ad AdE, utilizzando due diversi modelli:

  1. modello AA9/11 per le ditte individuali
  2. modello AA7/10 per le società

Entrambi i modelli sono presenti e scaricabili sul sito di Agenzia delle Entrate. Il modello può essere presentato direttamente presso l’ufficio AdE territorialmente competente, oppure inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno o, infine, per via telematica, utilizzando il software sul sito AdE.

La comunicazione ad AdE deve essere fatta entro 30 giorni dal primo giorno di inizio attività.

Codice ATECO, regime contabile ed INPS

Al momento in cui si decide di aprire una partita IVA, deve essere scelto il codice ATECO. Come abbiamo visto nell’articolo: “Codice Ateco cos’è a cosa serve e dove trovare quello di appartenenza”, il codice ATECO rappresenta la Classificazione delle attività economiche ed è una tipologia di classificazione adottata dall’Istituto Nazionale di Statistica italiano (ISTAT). Serve per le rivelazioni statistiche nazionali di carattere economico.

Inoltre l’apertura della partita IVA comporta anche la scelta del relativo regime contabile: regime forfettario, regime dei minimi o regime ordinario.

Come ultimo step al quale adempiere, non rimane che l’INPS. É necessario recarsi presso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale per comunicare la propria posizione previdenziale. In alcuni casi, ad esempio per le ditte individuali la dove è richiesto, è necessario anche iscriversi alla Camera di commercio (dipende comunque dall’attività svolta) e comunicare al comune di appartenenza l’avvio dell’attività.

I soggetti che possono aprire partita IVA

In linea generale chiunque. Nello specifico diciamo che lavoratori autonomi, professionisti e titolari di società, sono tenuti ad aprire una partita IVA.

Quanto costa aprire una partita iva

Veniamo ai costi, la parte, forse, più importante. Aprire una partita IVA non costa nulla. Mantenerla invece si. Tutto dipende dal regime contabile scelto.
In regime di contabilità ordinaria, chi apre partita IVA e deve registrare l’attività presso la Camera di Commercio, deve pagare alla stessa circa € 80-100/annui. A questo costo dovrà essere aggiunto l’importo da corrispondere all’eventuale commercialista, nonché i contributi INPS. Infine sono da considerare anche il pagamento delle imposte IRPEF e IRAP, calcolate sul reddito e sul valore aggiunto.

Chi invece appartiene al regime forfettario, godrà di qualche agevolazione in più. Questo regime, come abbiamo già visto, prevede l’esenzione IVA e una tassazione ad aliquote molto ridotte per l’IRPEF (pari al 15% e al 5% per i primi cinque anni di attività). Da tenere comunque in considerazione che nel forfettario non è possibile portare in detrazione le spese sostenute (unica eccezione i contributi previdenziali obbligatori).

Il consiglio generale è di evitare di aprire una partita IVA con introiti annui al di sotto di € 5000.

Aprire una partita iva: la procedura da seguire e i costi da sostenere

Mantenere una partita IVA: i costi

Aprirla è gratis, ma mantenerla costa. Tutto dipende dal regime scelto e dal tipo di attività svolta. Quando si apre un’attività nel calcolo dei costi da sostenere per il suo mantenimento troviamo:

Obblighi fiscali

Chi apre una partita iva ricordiamo che dovrà anche adempiere a precisi obblighi fiscali, tra i quali:

Regime semplificato: caratteristiche e funzionamento

Abbiamo già visto in cosa consiste il regime forfettario, il regime dei minimi e infine il regime ordinario. Adesso occupiamoci del regime semplificato. Un particolare regime fiscale nel quale gli obblighi di contabilità sono ridotti per alcune attività entro un certo limite di volume d’affari. Vediamo nel dettaglio quali sono le sue caratteristiche, come funzione e i vantaggi riservati a chi vi aderisce.

Regime semplificato: che cos’è

Il regime di contabilità semplificata, lo dice la parola stessa, ha il vantaggio di essere di facile applicazione e di richieder epoche conoscenze contabili. É un regime particolarmente caro e utilizzato soprattutto a chi ha intenzione di aprire una partita IVA. Questo regime infatti permette la gestione di una piccola attività in modo molto più semplice e meno onerosa.

Regime semplificato: chi può aderirvi

Vi possono aderire:

  1. Liberi professionisti
  2. Ditte individuali
  3. Società di persone
  4. Enti non commerciali

Un requisito importante è che il fatturato non superi i limiti previsti agli art. 57 e 85 TUIR. La normativa di riferimento è comunque l’art. 18 del DPR n°600/1973.

Limite dei ricavi

Il regime semplificato prevede anche un limite massimo di ricavi, oltre il quale non è possibile andare. Questi limiti prevedono che nell’ultimo anno intero, i ricavi totali non abbiano superato:

  • 400.000 euro per le imprese aventi a oggetto prestazioni di servizi;
  • 700.000 euro per le imprese aventi a oggetto altre attività.

Invece se l’attività dovesse essere iniziata durante il corso dell’anno, la verifica è da eseguire al ragguaglio dei ricavi.

Chi desidera aprire una partita IVA deve sapere che al momento dell’attribuzione del numero, il controllo per l’assegnazione del regime fiscale è eseguito sul volume d’affari presunto. Se questo dovesse essere al di sotto dei limiti sopra indicati, il regime contabile assegnato è in automatico quello semplificato.

Regime semplificato

Multi attività e regime semplificato

Nel caso in cui l’impresa svolga più di un’attività, a determinare il regime di appartenenza sarà l’attività prevalente, vale a dire quella con il maggior volume d’affari.

Se i ricavi delle attività svolte non fossero registrati separatamente, allora si deve fare riferimento al limite delle attività diverse dalla prestazione di servizi, vale a dire € 700,000,00.

I vantaggi del regime semplificato

Chiariti i requisiti di accessibilità, veniamo ora ai vantaggi. Primo fra tutti che aderisce al regime semplificato non ha l’obbligo di redigere il bilancio ed è esonerato dal conservare le scritture contabili. Questo quindi esclude il libro giornale, il libro inventari e le scritture ausiliarie.

La contabilità è appunto semplificate. Questo significa che i soli registri obbligatori sono:

  • I registri IVA – nei quali devono comunque essere riportate anche le annotazioni non utili ai fini d’imposta
  • registro dei beni ammortizzabili (in alternativa gli stessi dati possono essere forniti all’amministrazione Finanziaria)
  • Libro Unico del Lavoro – in caso di dipendenti
  • Registro di incassi e pagamenti – entro 60 giorni dall’avvenuto pagamento o dell’incasso registrato

Non è più obbligatoria la bollatura del registro dei beni ammortizzabili ne dei registri IVA. É invece ancora obbligatoria la numerazione progressiva, che deve essere eseguita autonomamente dal soggetto incaricato della tenuta delle scritture.

Infine il soggetto incaricato può registrate le spese per prestazioni di lavoro dipendente cumulativamente nel registro IVA acquisto. Questo deve avvenire entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi e sempre che queste pagine vengano annotate anche nel Libro Unico del Lavoro.

Il principio di cassa

La Legge 232/2016 – Legge di Stabilità 2017 – ha previsto che le imprese in regime semplificato debbano calcolare il redditto d’imposta (anche ai fini IRAP) in base al principio di cassa (alternativo a quello di competenza). Oggi esiste un calcolo misto cassa-competenza che prevede la determinazione del reddito d’impresa calcolato dalla differenza tra il totale:

+ ricavi e proventi percepiti;
– spese sostenute.

Regime ordinario: cos’è e come funziona

In alcuni precedenti articoli abbiamo visto requisiti, limiti, vantaggi e svantaggi, del regime forfettario e del regime dei minimi. Oggi invece prendiamo in esame il classico regime ordinario. Cos’è? Come funziona? Chi deve aderirvi e quali sono i documenti obbligatori da presentare al Fisco? Partiamo dall’inizio.

Regime ordinario: definizione

Si tratta di un regime fiscale al quale sono tenuti ad aderire alcune società e imprese di grandi dimensioni. Solitamente aderiscono a questo regime le grandi società e le imprese con un fatturato molto elevato.

Prerogativa del regime ordinario è la contabilità particolarmente articolata e la complessità dei vari registri da redigere, conservare e consegnare alle autorità competenti.

Le aziende che devono aderire al regime ordinario

Le società che sono tenute ad aderire obbligatoriamente a questo regime fiscale sono:

  • S.p.A, S.r.l., S.r.l.s., S.a.p.a., società cooperative e mutue assicuratrici;
  • Enti pubblici e privati che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali;
  • Stabili organizzazioni di società ed enti non residenti;
  • Associazioni non riconosciute e consorzi che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.

Nel caso in cui vengano poi superati i seguenti limiti:

  1. 400.000 euro per la vendita di servizi
  2. 700.000 euro per altri tipi di attività

Regime ordinario

sono tenuti a registrarsi alla contabilità ordinaria anche:

  • Persone fisiche che esercitano attività commerciali;
  • Società di persone (s.n.c. e s.a.s.);
  • Enti non commerciali che esercitano anche un’attività commerciale in misura non prevalente.

È comunque possibile passare da un regime semplificato, a quello ordinario, presentando tutta la dovuta documentazione.

I registri del regime ordinario

Uno degli obblighi al quale devono sottostare le società a regime ordinario è quello di redigere, conservare e presentare alle autorità alcuni specifici registri. Tra questi ricordiamo:

  1. Il libro giornale
  2. Il libro degli inventari
  3. le scritture di magazzino
  4. il libro mastro
  5. il registro dei beni ammortizzabili
  6. libri sociali
  7. registri IVA

Libro giornale

Si tratta di un libro di contabilità previsto dall’art. 2214 del Codice Civile che recita: “L’imprenditore che esercita un’attività commerciale deve tenere il libro giornale e il libro degli inventari. Deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa e conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite. Le disposizioni di questo paragrafo non si applicano ai piccoli imprenditori.

Il libro giornale ha esclusivo fine tributario. In questo registro sono annotati tutti i movimenti contabili di una ditta. Esistono vari modi per redigere questo libro, ma quello oggi più diffuso è il sistema a partita doppia. Per spiegare nel modo più semplice possibile di cosa si tratta, si potrebbe dire che la partita doppia elenca l’insieme degli scambi tra le attività e la passività dell’azienda.

Libro degli inventari

In questo registro sono contenute varie informazioni:l’inventario all’inizio dell’attività, gli inventari per i diversi anni, l’indicazione delle risorse dell’azienda e il loro valore, lo stato patrimoniale e il conto economico oltre che il capitale contribuito dall’imprenditore.

Su questo documento è necessario apporre una marca da bollo virtuale, o cartacea e deve essere numerato.

Libro Mastro

È il registro di tutti i conti (mastrini) che compongono un dato sistema contabile. Quindi è l’insieme dei conti accesi di una contabilità.

Il libro è strutturato in due colonne, una del dare e una dell’avere. In più è presente una rubrica alfabetica per debitori e creditori.

Le scritture di magazzino

Questo registro è riservato a tutte quelle attività che, per due esercizi consecutivi, hanno registrato ricavi maggiori di 5.164.568,99 euro e rimanenze alla fine del periodo superiori a 1.032.913,80 euro. Nel caso in cui gli importi registrati successivamente per due esercizi successivi siano inferiori ai limiti sopracitati, l’obbligo di compilazione di questo registro viene meno

Il registro dei beni ammortizzabili

Qui sono registrati gli immobili, i beni annotati nei registri pubblici e tutti gli altri beni. Per ciascuno deve essere indicato l’anno e il costo di acquisizione, eventuali modifiche di valore, il valore e il coefficiente di ammortamento. Anche questo tomo deve essere numerato.

Registri IVA

La tenuta e la stampa dei registri IVA non è più obbligatoria dal 2019 per effetto dell’entrata in vigore della fattura elettronica B2B.

Libri sociali

Permettono una rappresentazione sociale della struttura interna dell’azienda e consento la verifica del funzionamento degli organi societari (libro delle adunanze e libro delle deliberazioni assembleari).

Regime forfettario limiti ricavi e fatture elettroniche

Nell’articolo: “Quanto si paga di tasse in Italia: IRPEF, IRES e IRAP” abbiamo accennato al fatto che chi ha scelto regime forfettario, non è tenuto a pagare l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive). Questa effettivamente è una delle tante agevolazioni riconosciute a questo particolare regime fiscale.

Lo sentiamo nominare tante volte e sempre più spesso è scelto come formula lavorativa, per godere di maggiori agevolazioni e minor pressione fiscale. Vediamo allora tutto quello che riguarda il regime forfettario limiti ricavi e fatture elettroniche per cercare di capirne i pro e i contro.

Cos’è il regime forfettario: definizione

Il regime forfettario è un particolare regime fiscale riservato a partite IVA individuali. Permette di fruire di particolari agevolazioni fiscali e contabili.

Introdotto dalla legge 190/2014 – Legge di Stabilità 2014, è stato poi riformato con la successiva Legge 208/2015 (Legge di stabilità d2016). Le ultime modifiche introdotte sono quelle entrate in vigore il 1° Gennaio 2019.

Questo regime è l’unico, attualmente in vigore, che permette di gestire la propria partita IVA individuale con alcune agevolazioni rispetto al regime ordinario. É un regime solitamente adottato dalle piccole imprese e dai professionisti.

Per poter godere delle agevolazioni previste da questo regime è necessario rispettare alcuni requisiti di accesso e permanenza. I requisiti da verificare sono quelli riferiti all’anno di imposta precedente a quello in cui verrà applicato il regime fiscale.

Regime forfettario limiti ricavi e requisiti

Possono fruire del regime forfettario le persone fisiche esercenti un’attività d’impresa, di arte o professione e le Imprese Familiari, sempre se in possesso dei giusti requisiti.

I requisiti per accedere al regime forfettario nel 2020 sono:

  1. Il limite dei ricavi/compensi è tarato a massimo € 65,000 (ragguagliati ad anno)
  2. Le spese per il lavoro accessorio, dipendente o collaboratori devono ammontare al massimo ad € 20,000 lordi
  3. Per i beni strumentali invece non è richiesta nessuna condizione specifica.

Regime forfettario: limiti dei ricavi

Per accedere al Regime Forfettario è necessario non aver superato € 85,000 di ricavi e/o compensi. Indipendentemente dal codice Ateco di riferimento. Se le attività svolte sono più di una, la somma da considerare è quella derivante dal fatturato dei singoli codici Ateco.

Per la verifica del limite dei compensi, occorre fare riferimento anche delle cessioni o prestazioni eventualmente non ancora fatturate. Cessioni e prestazioni per le quali, si sono verificati i presupposti dell’articolo 109, comma 2, del DPR n. 917/86.

Regime forfettario limiti ricavi

Spese per lavoro accessorio, dipendente o collaboratori

Questo è il secondo limite e requisito imposto per accedere al Regime forfettario. Le spese
sostenute per lavoro accessorio, dipendente o collaboratori non devono superare € 20,000.

Le spese si riferiscono a:

  1. Lavoro accessorio
  2. Lavoratori dipendenti e collaboratori di cui all’art. 50 comma 1 lett. c) e c-bis) del TUIR
  3. Gli utili erogati agli associati in partecipazione con apporto costituito da solo lavoro e le somme corrisposte per le prestazioni di lavoro effettuate dall’imprenditore o dai suoi familiari.

Limite beni strumentali

Il regime forfettario 2020 non prevede più alcun limite o vincolo legato al valore dei beni strumentali.

Regime forfettario limiti ricavi e agevolazioni

Abbiamo quindi visto finora i limiti e i ricavi previsti per accedere e mantenere il Regime Forfettario. Ma quali sono i principali vantaggi di questo regime fiscale?

Anzitutto la franchigia IVA. Infatti esiste l’esonero da buona parte degli adempimenti previsti per l’imposta valore aggiunto. La disciplina IVA del regime forfettario prevede solo alcuni adempimenti specifici in base al tipo di operazione eseguita.

Operazioni Nazionali

Nelle operazioni Nazionali, il Regine Forfettario prevede che sulle fatture elettroniche emesse, scontrino elettronico e/o ricevute fiscali, L’IVA non debba essere addebitata a titolo di rivalsa.

Acquisto di beni Extra-UE

Entro la soglia di € 10.000 annui sono considerati non soggetti ad IVA nel Paese di destinazione.

Prestazioni di servizi

Prestazioni di servizi ricevuti da non residenti o rese ai medesimi, rimangono soggette alle ordinarie regole.

Altra agevolazione per gli operatori in regime forfettario è quella di non essere obbligati alla registrazione e conservazione delle scritture contabili. Tuttavia c’è l’obbligo di numerare e conservare le fatture d’acquisto e le bollette doganali, e di certificare i corrispettivi.

I ricavi conseguiti e i compensi percepiti non sono assoggettati a ritenuta d’acconto.

Fattura in regime forfettario

Le fatture in regime forfettario devono riportare la seguente dicitura:

Operazione effettuata ai sensi dell’art. 1, commi da 54 a 89, della Legge n. 190/2014, e articolo 1, commi da 111 a 113, della Legge n. 208/2015, e s.m. – Regime forfetario

Questo serve per informare il cliente che non è prevista l’applicazione dell’IVA.

I soggetti che rientrano nel regime forfettario sono esonerati dall’obbligo di emettere la fattura elettronica. Questo significa che possono emettere normale fattura.

Agevolazioni contributive

Sono previste delle agevolazioni contributive per i soggetti che rientrano nel regime forfettario.
L’agevolazione vale solo per chi è iscritto alla gestione IVS Artigiani e commercianti, i professionisti, di qualsiasi genere, ne sono esclusi.

Questa agevolazione consiste in una riduzione del 35% dei contributi previdenziali dovuti annualmente.

Quanto si paga di tasse in Italia: IRPEF, IRES e IRAP

Nei tre precedenti articoli abbiamo approfondito i concetti di IRPEF, IRES e IRAP. Si tratta di tre diverse imposte nella quali aziende, liberi professionisti e lavoratori autonomi, si imbattono ogni anno. Ciascuna ha le sue caratteristiche e rappresenta una diversa quota dei contributi che i soggetti sono obbligati a versare ogni anno all’erario.

Il gravame fiscale in Italia è uno dei più alti tra i Paese della Comunità. Recenti analisi, hanno infatti dimostrato che la pressione fiscale ammonterebbe a circa il 42%. Questo di conseguenza porta a chiedere perché ci sono così tante tasse in Italia e perché sono così alte.

In pratica quasi il 50% dei guadagni di un imprenditore va a finire in tasse. Ma di preciso quanto si paga di tasse in Italia? Cerchiamo di rispondere a questa domanda nel modo più semplice possibile (per quanto un argomento così complesso possa permetterlo).

Quanto si paga di tasse in Italia: IRPEF e IVA

Al primo posto della classifica delle imposte che più di altre pesano sui portafogli degli italiani, troviamo proprio l’IVA e l’IRPEF. Dalla riscossione di queste due imposte infatti, l’Erario trae circa il 55,4% del totale del gettito tributario.

IVA e IRPEF le pagano tutti i cittadini, indipendentemente che siano persone fisiche, piuttosto che giuridiche.

Per l’IRPEF sono previsti i seguenti scaglioni di aliquote in base al reddito imponibile:

  • fino a 15.000 23% aliquota 23% sulla parte eccedente la no tax area
  • da 15.000,01 a 28.000 (23% e) 27% aliquota
    imposta dovuta 3.450 € + 27% sulla parte eccedente i 15.000 €
  • da 28.000,01 a 55.000 (23%, 27% e) 38% aliquota
    imposta dovuta 6.960 € + 38% sulla parte eccedente i 28.000 €
  • da 55.000,01 a 75.000 (23%, 27%, 38% e) 41% aliquota
    imposta dovuta 17.220 € + 41% sulla parte eccedente i 55.000 €
  • oltre 75.000 (23%, 27%, 38%, 41% e) 43% aliquota
    imposta dovuta 25.420 € + 43% sulla parte eccedente i 75.000 €

Quanto si paga di tasse in Italia

Mentre l’IVA prevede attualmente:

  • 4% – aliquota minima – per l’IVA sui generi di prima necessità;
  • 10% – aliquota ridotta – per l’IVA su servizi turistici, alimentari ed edili;
  • 22% – aliquota ordinaria – per l’IVA da applicare in tutti i casi non rientranti nelle prime due aliquote.

Quanto si paga di tasse in Italia: l’IRAP

L’Imposta Regionale sulle Attività Produttive è un vero e proprio incubo per chi possiede una Partita IVA ed emette regolarmente fatture elettroniche.
Questa è infatti calcolata sul valore della produzione netta e ha un aliquota che va dal 4,25% al 8,50%.

Per fortuna i liberi professionisti e chi ha scelto il regime forfettario, non è tenuto a pagare l’IRAP. Esistono comunque delle eccezioni. É il caso in cui, per svolgere le proprie attività, si avvalga dell’aiuto di collaboratori.

Ogni regione ha facoltà di diminuire o aumentare la percentuale applicabile fino a un punto percentuale. Questo dipende anche dal tipo di attività svolta.

Pressione fiscale alle stelle

Secondo i dati contenuti nelle ultime “Revenue Statistics” dell’Osce, la pressione fiscale in Italia ha raggiunto il 42,1%. Nella classifica stilata per l’occasione, L’Italia si posiziona purtroppo settima su 37 paesi in gara. Dietro di noi l’Austria, ma di poco, -0,1%. Invece in vetta alla classifica troviamo:

  1. Francia – 42,7%
  2. Danimarca – 44,9%
  3. Belgio – 44,8%
  4. Svezia – 43,9%
  5. Finlandia – 42,7%

Vero è che si tratta di paesi che offrono migliori servizi, assistenza e agevolazioni, rispetto all’Italia.
Nell’area OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) la pressione fiscale si attesta attorno al 34,3%. Negli Stati Uniti invece è più bassa, “solo” il 24,3%, mentre in Irlanda è addirittura del 22,3%.

Che cos’è l’iva, come funziona e come si calcola

Continua l’esplorazione delle imposte italiane che i contribuenti devono periodicamente versare. Dopo IRPEF e IRES, nonché l’IRAP, adesso è il momento dell’IVA. L’imposta sul valore aggiunto è una delle più note imposte a imprenditori, società e liberi professionisti. Presente su tutte, o quasi, le fatture elettroniche è nota ai più, ma c’è ancora chi non ha ben chiaro perché debba effettivamente essere versata. Vediamo quindi di chiarire in breve che cos’è l’IVA, come funziona e perché è applicata sulla fatturazione elettronica e sulle transazioni.

Che cos’è l’IVA: definizione

Acronimo di Imposta sul Valore Aggiunto, è un’imposta adottata nel 1968 da parte di numerosi Paesi nel mondo. Si tratta di un contributo richiesto e applicato sul valore aggiunto di ogni fase della produzione, di scambio di beni e servizi.

L’IVA ha sostituito la più datata IGE= imposta generale sull’entrata. La sostituzione è avvenuta per adeguare il sistema tributario italiano a quello di altri Paesi Comunitari. Tutti i paesi della UE l’adottarono, anche se rimasero delle sostanziali differenze fra le aliquote stabilite nei diversi territori.

L’IVA ha fatto il suo ingresso in Italia grazie al DPR n° 633/1972. Come per le altre imposte sugli scambi (dette sugli affari), l’IVA occupa un posto di rilievo nel sistema tributario italiano. Questo perché assicura un’entrata notevole allo stato. Si parla quasi del 30% degli incassi tributari statali e il 60% di quelle delle imposte dirette.

Basi imponibili IVA

Esistono tre diverse basi imponibili, tipo:

  1. prodotto (VAp)
  2. reddito (VAr)
  3. consumo (Vac)

La differenza è sulla deducibilità delle spese di investimento. Nel VAp nessuna spesa di investimento è deducibile, di conseguenza la base imponibile è il prodotto lordo (PL).

Nel Var sono deducibili le spese per accantonamento per ammortamenti (PL-Invs). Infine nel VAc sono deducibili gli acquisti di beni strumentali nell’anno in cui sono compiuti (PL-Invs-Inva).

Da tenere presente che in fase di conteggi e valutazioni, l’IVA non deve essere considerata. Questo perché si tratta, a tutti gli effetti, di un debito verso l’erario e non un ricavo o un costo.

Come si calcola l’Iva

Si calcola in due diversi modi, uno più semplice e l’altro più complesso.
Il primo, più facile, si calcola per addizione. In questo caso si applica l’aliquota dell’imposta alla somma delle remunerazioni dovute ai fattori produttivi (L+IP+∏).

Mentre nel secondo caso, più complesso, il calcolo è eseguito per sottrazione. Si divide in due tipologie:

  1. base effettiva: aliquota applicata alla differenza fra valore dei beni prodotti in un dato arco temporale e valore delle materie prime impiegate alla produzione
    oppure su base effettiva
  2. Su base finanziaria: in altre parole l’aliquota dell’imposta (tc) viene moltiplicata alla differenza fra le vendite (V) e gli acquisti (A)

Che cos’è l’iva

Cos’è lo scorporo

Lo scorporo dell’IVA è un’operazione contabile che consiste nel separare l’IVA dal prezzo comprensivo dell’IVA stessa, determinando così l’imponibile. Per semplificare il concetto riportiamo la formula matematica utilizzata nel calcolo.

I= CX100/122=C/1,22

Legenda:
I= imponibile
C= prezzo ivato
Iva al 22%

Il denominatore è ottenuto sommando l’IVA all’unità: dunque nell’ipotesi dell’IVA al 22%, esso è pari a 1,22.

Le aliquote IVA

L’Iva, come abbiamo detto, è un’imposta proporzionale. Questo perché il suo valore dipende dal prezzo del bene moltiplicato per l’aliquota di riferimento.

Le aliquote attuali previste sono:

  • 4% – aliquota minima – per l’IVA sui generi di prima necessità;
  • 10% – aliquota ridotta – per l’IVA su servizi turistici, alimentari ed edili;
  • 22% – aliquota ordinaria – per l’IVA da applicare in tutti i casi non rientranti nelle prime due aliquote.

Operazioni soggette a IVA

Ne esistono di quattro diverse tipologie:

  • imponibili – per i quali sussistono i presupposti soggettivi, oggettivi e territoriali
  • non imponibili – per le quali mancano uno o più dei presupposti precedenti
  • operazioni esenti ai sensi dell’articolo 10 del d.p.r. 633/1972 – non danno luogo a obblighi particolari
  • operazioni escluse ai sensi dell’articolo 15 del d.p.r. 633/1972 – non danno luogo a obblighi particolari