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Spese detraibili: cosa sono e quali sono quelle detraibili nel Modello 730

Quest’anno le dichiarazioni 730 vedono introdotta una significativa novità: le spese detraibili certificate. Si tratta di una iniziativa introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 che individua delle spese per cui è prevista una detrazione d’imposta del 19% in fase di dichiarazione dei redditi. A questa, di conseguenza, di applica l’obbligo della tracciabilità dei pagamenti in parola.

Spese detraibili: cosa sono

La Legge di bilancio 2020, articolo 1 comma 689 ha reso obbligatorio la tracciabilità delle spese detraibili al 19%. Questo significa che, affinché possano essere considerate spese detraibili certificate e comparire nel Modello 730, devono essere tracciate. In altre parole si tratta di spese pagate tramite un metodo di pagamento tracciato, verificabile dalle autorità giudiziarie (bonifico bancario, bonifico postale, carte di credito, carte di debito, assegni bancari o postali).

I pagamenti in contanti invece, anche se consentiti, non godono dell’agevolazione fiscale di detrazione del 19%.

Spese detraibili certificate: quali sono

Come specificato al paragrafo precedente, si tratta di spese sostenute attraverso un pagamento tracciato, controllabile dalle autorità giudiziarie. Tra queste, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, ricordiamo le spese:

  • assicurative
  • veterinarie
  • funebri
  • le spese sostenute dagli studenti fuori sede per affitti
  • spese sostenute per istruzione secondaria e universitaria

Ci sono poi alcune spese per le quali non si applica l’obbligo della tracciabilità, come ad esempio le spese sanitarie effettuate in farmacia (spese per farmaci da banco e dispositivi medici). Stesso discorso vale per le prestazioni sanitarie rese dalle strutture pubbliche o da strutture private accreditate al Servizio Sanitario Nazionale. Queste sono spese per cui è possibile beneficiare della detrazione fiscale al 19%, ma possono essere effettuate in contanti. L’obbligo non si estende nemmeno alle spese per cui è prevista una detrazione diversa da quella del 19% e agli oneri deducibili.

Documentazione da presentare

Se il pagamento della spesa sostenuta è stato effettuato in contanti, questa allora non potrà essere detratta, anche se si conserva la ricevuta, lo scontrino o la fattura.

Al contrario, come abbiamo visto, se la spesa è stata pagata tramite mezzo tracciabile, allora è detraibile, ma è necessario aver conservato la prova del pagamento.

Nel caso in cui il documento attestante la prova del pagamento venga a mancare, occorre un’apposita annotazione in fattura (ricevuta fiscale o documento commerciale) da parte del precettore delle somme che cede il bene o servizio. Questo difatti certifica di aver ricevuto denaro con pagamento tracciato. L’annotazione è obbligatoria sul documento di acquisto, mentre non può essere ammessa se integrata manualmente da parte dell’acquirente.

Quindi la documentazione da presentare è costituita da:

Su ciascuna di esse deve essere riportato codice fiscale, numero di partita IVA e codice fiscale del contribuente.

Spese detraibili

L’Amministrazione Finanziaria può richiedere, quando e se lo desidera, di esibire la documentazione che dimostri il diritto alle deduzioni e detrazioni richieste in dichiarazione. Per questo motivo è necessario conservare la documentazione originale per tutto il periodo di accertamento (vale a dire entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione).

Esempi di documentazione da presentare per aver diritto alla deduzione

Per l’acquisto di farmaci (anche omeopatici), comprati presso farmacie, supermercati e altri esercizi commerciali, o attraverso farmacie on-line, la documentazione da conservare e presentare è:

  • Fattura o scontrino fiscale (detto anche parlante) in cui devono essere specificati natura (farmaco o medicinale, OTC, ecc…), qualità (codice alfanumerico) e quantità del prodotto acquistato nonché il codice fiscale del destinatario
  • Per eventuali farmaci acquistati all’estero idonea documentazione (v. CM n. 34 del 2008)

Per le spese di prestazioni medico-generiche, specialistiche e spese veterinarie è necessario avere:

  • Ricevuta fiscale o fattura rilasciata dal medico o dallo specialista
  • Ricevuta relativa al ticket se la prestazione è resa nell’ambito del SSN

Per spese per prestazioni chirurgiche:

  • Ricevuta fiscale o fattura rilasciata dall’ospedale o dalla struttura inerente alle spese sanitarie le spese sanitarie sostenute per l’intervento chirurgico.

Nel caso di spese sostenute per degenze sanitarie:

  • Ricevuta fiscale o fattura rilasciata dall’ospedale o dalla casa di cura – devono essere escluse le spese inerenti ogni maggiorazione extra (come ad esempio: uso del telefono, o spese relative al letto aggiuntivo utilizzato da chi presta l’assistenza)

Cambiando tipologia di spesa, per interessi passivi (mutui per la costruzione/ristrutturazione dell’abitazione principale a partire dal 1998) occorre conservare e presentare:

  • Ricevute quietanzate dalla banca relative alle rate di mutuo pagate nell’anno d’imposta
  • Contratto di mutuo dal quale dovrà risultare che il finanziamento è stato concesso per la costruzione dell’abitazione principale o per l’effettuazione degli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 3, co. 1, lettera d) DPR n. 380 del 2001 dell’abitazione principale; in mancanza la motivazione può essere autocertificata
  • Autocertificazione che attesti che sussistono le condizioni richieste per la detraibilità in riferimento all’abitazione

Dichiarazioni 730 – cosa sono, quando si fanno, scadenze e compilazione

Le dichiarazioni 730 sono quelle riservate ai lavoratori dipendenti e ai pensionati. Dal 10 maggio di quest’anno sul sito dell’Agenzia delle Entrate (AdE) è disponibile il modello del 730 precompilato. A distanza di 15 giorni AdE consente ai contribuenti di scaricarlo, compilarlo e inviarlo in forma telematica. Per poter accedere all’area personale sul sito di AdE è necessario possedere le credenziali PIN dell’Agenzia delle Entrate, il PIN dell’INPS, oppure SPID o CIE. La compilazione di queste dichiarazioni offrono diversi vantaggi ai lavoratori. Prima fra tutti quella secondo la quale non è necessario eseguire i calcoli per poi ottenere il rimborso in busta paga, piuttosto che sulla rata della pensione. Al contrario, se dai calcoli, risultasse necessario effettuare dei pagamenti, questi sono trattenuti direttamente dalla retribuzione, piuttosto che dalla pensione stessa.

Quindi si tratta di modelli di dichiarazione dei redditi che devono presentare le persone fisiche. I modelli cambiano a seconda della tipologia di reddito posseduta (pensione, retribuzione da lavoro dipendente, ecc…).

Dichiarazioni 730: alternativa al Modello Unico

Il modello 730 è usato in alternativa al Modello Unico da tutti i contribuenti che devono dichiarare i seguenti redditi:

  • di pensione o di lavoro dipendente (compresi i redditi da collaborazione coordinata e continuativa e le indennità sostitutive di reddito di lavoro dipendente); i redditi di pensione o di lavoro dipendente (assieme alle trattenute fiscali e i contributi previdenziali) sono certificati nel CUD emesso dal datore di lavoro o dall’INPS
  • di terreni e fabbricati
  • a tassazione separata
  • di capitale
  • di lavoro autonomo per i quali non è richiesta la partita IVA (ad esempio prestazioni di lavoro autonomo non esercitate abitualmente)
  • redditi diversi (ad esempio redditi di terreni e fabbricati situati all’estero)

I titolari di partita IVA invece non devono usare il modello 730. Oltre a loro ci sono un’altra serie di soggetti esonerati dalla presentazione delle dichiarazioni 730:

  • contribuenti non residenti in Italia
  • eredi di contribuenti deceduti
  • tutti coloro i cui datori di lavoro non sono tenuti a versare le ritenute d’acconto (ad esempio, i lavoratori domestici come colf, giardinieri, ecc.)
  • i contribuenti con soli redditi da abitazione principale più eventuali altri fabbricati non locati
  • i contribuenti con soli redditi da lavoro dipendente o pensione a patto che il datore di lavoro/ente pensionistico abbia effettuato correttamente tutte le ritenute fiscali in busta paga
  • coloro che oltre ad aver percepito redditi da lavoro dipendente o pensione, posseggono anche la loro abitazione principale più altri eventuali fabbricati non locati

A differenza del modello Unico, le dichiarazioni 730 possono essere congiunte e contenere i redditi di entrambi i coniugi.

Dichiarazioni 730

Dichiarazioni 730: scadenze e modalità di presentazione

La scadenza fiscale entro la quale le dichiarazioni 730 devono essere presentate è il 30 settembre 2021. Il termine di trasmissione è sempre lo stesso. Mentre la data per l’erogazione del rimborso IRPEF spettante è differenziata in relazione al periodo di trasmissione della dichiarazione dei redditi.

Gli eventuali rimborso emersi dal calcolo del 730, sono erogati sulle retribuzioni di competenza del mese successivo a quello in cui il sostituto ha ricevuto la comunicazione di liquidazione, in altre parole il risultato del calcolo della dichiarazione dei redditi.

Da ricordare infine la data del 25 ottobre 2021, entro la quale è necessario per i lavoratori inviare l’eventuale dichiarazione dei redditi integrativa in caso di errori.

Rimborsi e conservazione

Abbiamo visto quindi che la data di rimborso, se previsto, arriva direttamente in busta paga a cadenza personalizzata. Nel caso in cui il 730 contenga i dati del sostituto d’imposta, allora il rimborso è accreditato a partire dalla busta paga del mese di luglio. Per i pensionati invece il rimborso va sulla rata della pensione a partire da quella del mese di agosto.

Se il modello 730 invece non contiene i dati del sostituto d’imposta, allora il rimborso è accreditato da parte dell’Agenzia delle Entrate entro fine anno, o all’inizio dell’anno successivo, direttamente sul conto corrente bancario del soggetto dichiarante.

Le dichiarazioni 730 devono essere obbligatoriamente conservate per almeno i 5 anni successivi dall’anno di presentazione (termine stabilito per l’accertamento). Per fare un esempio: la dichiarazione del 730 dell’anno 2018, va conservata fino al 31 dicembre del 2023.

Infine si ricorda che i contribuenti con partita IVA non possono fare dichiarazioni 730 nemmeno se avessero percepito anche un reddito da lavoro dipendente o da pensione. Devono per forza fare il modello REDDITI (ex Modello Unico).

Dazi doganali: cosa sono, come sono calcolati e quando non si applicano

Nel precedente articolo: “Bolletta doganale: cos’è e come funziona abbiamo visto cos’è e a cosa serve una bolletta doganale. In pratica si tratta di un documento che serve a confermare e certificare alle autorità competenti, il pagamento dei dazi doganali. Il dazio è la richiesta di pagamento per lo scambio merci tra paesi, più o meno vicini, più antico che si conosca. Già oltre 2000 anni fa i popoli ne esigevano il pagamento. Oggi invece, la definizione più comune è quella secondo la quale i dazi doganali sono delle imposte indirette applicate sul valore di tutti i prodotti importati ed esportati dal Paese che l’impone. In Europa i dazi sono richiesti per il pagamento di tutti i prodotti che provengono o sono diretti, in paesi che non fanno parte della CEE (Comunità Economica Europea). Quindi, in altre parole, i dazi doganali sono applicati a qualunque (o quasi) merce acquistata e proveniente dall’estero.

Dazi doganali: un po’ di storia

Come abbiamo detto, hanno un’origine molto antica. Durante il Medioevo, ad esempio, rappresentavano una delle entrate fiscali più alte ed importanti. In quel periodo i dazi erano applicati alla merce che transitava addirittura da un Comune all’altro. Con il passare del tempo, durante alcune particolari epoche, i dazi furono sospesi. Questo accorgimento venne adottato grazie ad una diversa organizzazione amministrativa del territorio e, visto che gli scambi commerciali andavano aumentando, la sospensione si rese necessaria, per evitare di gravare troppo sul transito della merce.

Dal 1600 i dazi interni sono ridotti drasticamente. Grazie a questa manovra, le dottrine economiche liberali, riescono a garantire una maggiore libertà di circolazione delle merci. A quel punto l’applicazione delle tasse doganali si applica esclusivamente quando la merce passa da una dogana all’altra sui confini dei vari Stati.

A cosa servono veramente

Non c’è un’unica vera ragione. Ne esistono molteplici, che spingono i vari Stati ad applicare ciascuno i propri dazi doganali. In alcuni casi, ad esempio, quando i dazi sono applicati in misura particolarmente alta su merce costosa e di pregio, il pagamento è richiesto in via cautelare per proteggere il consumatore. Infatti gli addetti della dogana devono eseguire degli attenti e accurati controlli  sull’origine dei prodotti.

In altri casi invece le autorità doganali devono controllare eventuali regole che disciplinano la circolazione della merce, la presenza o meno di autorizzazioni o divieti all’importazione e certificazioni. In questo caso il dazio compensa il controllo che mira ad individuare merce pericolosa di cui è vietata l’importazione (armi, stupefacenti, specie animali o vegetali protette, ecc…).

Ma non è sempre e solo una questione di controllo e tutela. Anzi, il più delle volte i dazi doganali sono introdotti dai vari Stati pe ragioni politiche. Ragioni che si traducono nel voler provare a proteggere settori produttivi interni che NON sono in grado di concorrere con i mercati stranieri. Quando però questo sistema è applicato sistematicamente, per cercare quindi di proteggere la produzione interna, allora è il caso di parlare di protezionismo.

I dazi doganali infine possono essere applicati anche alle esportazioni (merce in uscita dal paese). Questo avviene soprattutto quando un paese è particolarmente ricco di un determinato prodotto e deve incrementare le entrate fiscali.

Dazi doganali: il calcolo

Esistono tre diversi metodi per calcolare i dazi doganali:

  • sul valore della merce trasportata che risulta dalla fattura elettronica, al netto o al lordo delle spese di trasporto (valore della merce + nolo Extra UE – nolo=spesa di trasporto)
  • sulla quantità di merce trasportata espressa in una precisa unità di misura
  • sommando al primo metodo il secondo

Esiste una classificazione ben precisa della merce trasportata, che rientra tutta nelle tabelle online disponibili sul TARIC. Quest’ultimo è lo strumento utilizzato per calcolare i dazi doganali sulla merce importata. La merce è classificata per codici che ne identificano la natura e le caratteristiche, dalle quali, a loro volta, dipende il calcolo delle tasse alla dogana. Quindi ad ogni codice corrispondono precisi obblighi, disposizioni e tariffe doganali.

Sbagliare un codice significa trovare un’errata associazione tra categoria merceologica e merce trasportata. Questo può portare a inconvenienti che vanno dalla semplice sanzione amministrativa, al blocco della merce. 

Dazi doganali

Classificazione doganale delle merci

Ad ogni merce è assegnato un preciso codice numerico. Si tratta di una raccolta in 21 sezioni e 99 capitoli. Ogni codice è composto da 10 cifre e ogni parte del codice ha una specifica funzione:

  • le prime sei cifre del codice indicano le voci e le sottovoci del sistema armonizzato (SA – 1 e 2 identificano il capitolo, 3 e 4 la voce di tariffa del SA, 5 e 6 si riferiscono alla sottovoce).
  • le successive due si riferiscono invece alle sotto-voci relative alla suddivisione comunitaria della nomenclatura combinata (NC)
  • le ultime due invece identificano le sotto-voci del codice Taric

A questo schema si possono aggiungere ulteriori 4 cifre che servono a identificare il codice addizionale Taric, relativo a determinate categorie merceologiche oppure categorie soggette a dazi compensatori.

Unione Europea e Dazi doganali

La nascita del Mercato Unico Europeo ha cambiato la terminologia in fatto di dazi doganali. Difatti non si parla più di “dazi”, ma di “merce proveniente da paesi che non fanno parte dell’Unione Europea”. Quindi il dazio doganale, infatti, come anticipato, è un’imposta di consumo che grava sui prodotti che vengono importati da paesi terzi.

Dichiarazione IVA: tutti i soggetti esonerati nel 2021

La dichiarazione IVA è presentata ogni anno da tutti quei contribuenti titolari di partita IVA che esercitano attività d’impresa o di lavoro autonomo. Attraverso la dichiarazione IVA i soggetti comunicano ad Agenzia delle Entrate (AdE) ogni operazione eseguita nel corso dell’anno che ha impatto ai fini IVA. Ci sono però molti soggetti esonerati da questo obbligo.

Dichiarazione IVA: soggetti obbligati

Tra i soggetti titolari di partita IVA obbligati a presentarla ogni anno, ricordiamo le attività:

  • d’impresa
  • artistiche o professionali
  • associazioni sportive dilettantistiche
  • associazioni culturali non riconosciute che non hanno scelto le disposizioni della legge n°398/1991
  • tutti i soggetti che hanno optato per l’applicazione IVA in regime ordinario
  • eredi
  • curatori fallimentari
  • società incorporanti
  • società beneficiarie in caso di scissione

La dichiarazione IVA è obbligatoria in ogni caso, anche quelli in cui, nel 2020, i soggetti precedenti:

  • non abbiano effettuato operazioni in regime IVA
  • non erano tenuti al versamento dell’imposta
  • hanno effettuato operazioni non imponibili
  • hanno eseguito operazioni non soggette
  • non hanno svolto alcuna attività

Dichiarazione IVA

Dichiarazione IVA: i soggetti esonerati nel 2021

Visti i soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione IVA, elenchiamo adesso tutti quelli che possono non presentarla:

  • Soggetti che durante il 2020 hanno eseguito operazioni esenti
  • Contribuenti in regime forfettario e contribuenti minimi
  • Contribuenti rientranti nel regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e i lavoratori in mobilità
  • Produttori agricoli con volume di affari inferiore a 7000€
  • Esercenti di attività di organizzazione di giochi
  • Imprese individuali che hanno dato in affitto l’unica azienda
  • Soggetti passivi d’imposta non residenti
  • Enti non commerciali, società sportive;
  • Soggetti domiciliati o residenti fuori dall’Unione europea
  • Raccoglitori occasionali di prodotti selvatici non legnosi di cui alla classe ATECO 30
  • raccoglitori occasionali di piante officinali spontanee, con volume d’affari dell’anno precedente inferiore a 7000€
  • Giornalai – tabaccai che hanno effettuato solo operazioni non rilevanti ai fini IVA

Soggetti che svolgono attività d’intrattenimento

Le attività d’intrattenimento che sono assoggettate ad imposte sugli intrattenimenti, che scontano l’IVA in modo forfettario sono:

  • Esecuzioni musicali di qualunque genere
  • Attività che impiegano biliardi, elettrogrammofoni, biliardini, apparecchio o congegno a gettone, moneta, o a scheda, da divertimento o trattenimento, anche se automatico o semiautomatico, installati sia nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia nei circoli o associazioni di qualsiasi specie, gioco del bowling, noleggio di go-kart
  • Sale giochi o attività di scommesse
  • Esercizio del gioco nelle case da gioco

Regime forfettario, contribuenti minimi e dichiarazione IVA

Come detto nel paragrafo precedente, i soggetti in regime forfettario e contribuenti minimi non hanno l’obbligo di presentare dichiarazione IVA. Quindi sono esonerati agli effetti IVA:

  • Obbligo di fatturazione, registrazione e liquidazione d’imposta
  • Versamento imposta periodica ed annuale
  • Presentazione della dichiarazione IVA
  • Obbligo redazione e conservazione registri IVA

Dichiarazione IVA: termini e sanzioni

La dichiarazione IVA deve quindi essere presentata nel periodo compreso tra il 1° febbraio e il 30 aprile. Il riferimento deve essere fatto all’anno d’imposta precedente. Non è invece previsto un termine di consegna agli intermediari che devono trasmettere telematicamente ad AdE.

In caso di presentazione tardiva entro 90 giorni dalla scadenza, la dichiarazione IVA è comunque ritenuta valida, ma sono applicate delle sanzioni. Le sanzioni previste da legge, in questo caso, hanno un valore compreso tra i 250€ e i 2000€. Per evitare la sanzione, il contribuente assieme alla presentazione tardiva può presentare anche il ravvedimento operoso.

In caso invece di omesso versamento, la sanzione applicata è pari al 30% dell’imposta non versata.

Risulta quindi chiaro quanto sia importante capire e sapere quando è obbligatorio presentare dichiarazione IVA, per evitare di incappare in eventuali sanzioni.

Le dichiarazioni IVA presentate oltre 90 giorni dalla scadenza, sono considerate omesse. Nonostante questo però costituiscono ugualmente titolo per la riscossione dell’imposta. Oltre questa scadenza quindi sono previste altre sanzioni, nelle seguenti forme:

  1. Dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di euro 250,00, in presenza di debito d’imposta
  2. Da 250,00 euro a 2.000,00 euro, se il soggetto effettua esclusivamente operazioni per le quali non è dovuta l’imposta

Diritto camerale: calcolo e pagamento alla Camera di Commercio

Il diritto camerale è una prestazione dovuta ogni anno alle varie Camere del Commercio da parte di tutte le imprese iscritte o annotate al Registro delle imprese. Si tratta di un diritto dovuto in base alla sede legale dell’impresa. Questo significa che l’impresa paga la Camera di Commercio (unità locali, sede secondarie o uffici di rappresentanza) della località dove ha sede legale. In caso le sedi si trasferiscano, allora il diritto va pagato alla Camera di Commercio in cui è ubicata la sede legale dal 1° gennaio dell’anno in corso.

Diritto camerale: soggetti obbligati e soggetti esonerati

Ci sono alcuni soggetti obbligati a pagare il diritto camerale ogni anno. Tra questi vanno ricordati:

  • Società a responsabilità Limitata (unipersonali)
  • Società per Azioni
  • Imprese individuali
  • Società in accomandita per azioni
  • Società di persone (in nome collettivo e in accomandita semplice)
  • Imprese agricole
  • Imprese non agricole
  • Cooperative
  • Consorzi
  • Enti economici pubblici
  • Enti economici privati
  • Aziende speciali e consorzi previsti dalla Legge n 267/00
  • Imprese estere con sedi locali in Italia
  • Società consortili a responsabilità limitata per azioni

Non tutte le imprese però sono assoggettate a questo obbligo. L’onere del pagamento, ad esempio, non grava su:

  • società per le quali è stato adottato un provvedimento fallimentare (salvo esercizio provvisorio di attività)
  • imprese per le quali è stata adottata una liquidazione amministrativa (salvo esercizio provvisorio di attività)
  • imprese individuali che hanno dichiarato e cessato l’attività al 31 dicembre dell’anno precedente e che hanno presentato la cancellazione al Registro delle Imprese entro e non oltre il 30 gennaio dell’anno corrente
  • società ed enti collettivi con bilancio finale di liquidazione già approvato e che hanno presentato domanda di cancellazione dal Registro Imprese sempre entro il 30 gennaio dell’anno in corso
  • Cooperative nei confronti delle quali le Autorità Giudiziarie, hanno adottato provvedimenti di scioglimento

Diritto camerale

Diritto Camerale per più unità locali

Le imprese che esercitano la propria attività in diverse unità locali dislocate in differenti zone del territorio, sono tenute a pagare il diritto camerale ad ogni Camera di Commercio nel cui territorio ha sede l’unità locale stessa. L’importo dovuto è pari al 20% di totale che corrisponde la sede centrale. Il pagamento è da eseguirsi utilizzando un modello F24 dove, ogni unità locale, deve occupare un singolo rigo per la quale dovranno essere indicati gli importi dovuti, la sigla della provincia di appartenenza, l’anno di riferimento e il codice tributo 3850.

Termine di pagamento e scadenze

Il termine di pagamento del diritto camerale coincide con la scadenza del primo acconto delle imposte sui redditi. Esistono delle eccezioni. Infatti per tutte quelle imprese che determinano l’importo dovuto per il diritto camerale, in base a precisi scaglioni di fatturato e le ditte che hanno approvato il bilancio entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio sociale, devono pagare entro:

  • 30 giugno – per il pagamento senza 0,40%
  • 30 luglio – per il pagamento con 0,40%

Inoltre le società che approvano il bilancio oltre i quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, devono versare il diritto camerale entro il 16 del mese successivo a quello di approvazione.

Infine, i soggetti che non approvano proprio il bilancio entro i termini stabiliti da legge, devono pagare il diritto camerale entro il 30 del mese successivo a quello in cui avrebbero dovuto approvare il bilancio stesso.

Quando le scadenza non sono rispettate, i soggetti possono comunque pagare entro il trentesimo giorno successivo alla scadenza, versando una somma maggiorata dello 0,40%. Se anche questa nuova scadenza non dovesse essere rispettata, il soggetto potrà comunque provvedere al pagamento entro un anno, avvalendosi del ravvedimento operoso.

Diritto camerale: come pagarlo

Il diritto camerale si paga versandolo in un’unica soluzione. Si paga utilizzando un modello F24. Su questo va sempre indicato il codice tributo 3850 nella sezione IMU ed altri tributi locali.

Il diritto annuale deve essere versato con arrotondamento all’unità di euro secondo le modalità indicate dalla nota MISE 3.3.2009 n. 19230.

Cosa succede quando non si paga il diritto camerale

I soggetti che non pagano il diritto camerale non possono ottenere le certificazioni da parte dell’Ufficio del Registro delle Imprese. Questo significa che chi non ha provveduto a pagare il diritto camerale non può ottenere alcun certificato da parte del sistema informatico nazionale delle Camere di Commercio.

Le imprese che non pagano, non hanno versato un importo sufficiente, oppure versano in ritardo, si possono avvalere del ravvedimento operoso. In questo caso il pagamento è sempre effettuabile con modello F24, ma stavolta i codici tributo da riportare sono:

  • 3852 per la sanzione, dovuta al ritardo del pagamento
  • 3851 per gli interessi.

Prima nota: registro di entrate e uscite

La prima nota è un documento contabile. Si tratta di un registro delle entrate e delle uscite della cassa che non è obbligatorio redigere, ma è sempre molto consigliato. In un’azienda infatti è sempre molto importante avere sotto controllo entrate ed uscite. Lasciare quindi traccia dei movimenti di denaro e dovendoli poi inserire nel bilancio d’esercizio, un registro aiuta a segnare in modo ordinato le entrate e le spese effettuate con i contanti. Un registro che risulta indispensabile per i movimenti economici quotidiani. Non ha una forma determinata, basta che contenga, in ordine di data, i movimenti e le operazioni finanziarie dell’attività. Si tratta di un registro che serve anche a trovare traccia di ogni evento esterno che ha coinvolto l’utilizzo di denaro contante. Risulta particolarmente importante, sia per i liberi professionisti, che per le aziende, perché molto spesso o movimenti in denaro sfuggono al controllo. Inoltre, se redatta correttamente, la prima nota, è un aiuto valido per preparare le varie scritture contabili all’interno del libro giornale.

Prima nota: la normativa di riferimento

La Risoluzione del Ministero delle Finanze n. 9/101 del 09/08/1979 prevede che la prima nota acquista validità giuridica e fiscale quando è numerata regolarmente, bollata prima dell’utilizzo e, soprattutto, se contiene ogni operazione di gestione.

L’articolo 24 del DPR n. 633/1972, prevede inoltre che i commercianti al dettaglio esonerati dall’obbligo dei corrispettivi telematici, siano invece obbligati a redigere la prima nota. Sono inoltre obbligati a tenere correttamente un registro prima nota di cassa, quando il registro dei corrispettivi è conservato in un luogo diverso.

Un monitoraggio costante

Se la prima nota è tenuta correttamente, può rappresentare un valido riferimento per capire come sta andando l’azienda. Per redigerlo non esiste un modello standard, visto che non è obbligatorio. Esistono comunque delle regole di scrittura che ne assicurino una redazione precisa e puntuale.

Visto che si tratta di un registro giornaliero, che serve a tenere sotto controllo i movimenti dei contanti, deve riportare ogni singola operazione redatta e catalogata in ordine cronologico. Questo perché la prima nota riporta ogni transazione che deve poi essere trascritta nel libro giornale che raccoglie tutti gli eventi di gestione esterni.

Prima nota

I dati necessari e immancabili in una prima nota sono:

  • data
  • riferimenti specifici a documenti come ricevute, fatture, ecc…
  • importi singoli
  • importi totali
  • descrizione estesa ed esaustiva della natura della transazione eseguita
  • riferimento alla natura del documento contabile (fattura, ricevuta, ecc…)
  • partite fuori cassa (banca, o altro)

Prima nota di cassa e le operazioni da segnalare

Maggiore è la precisione con la quale la prima nota è redatta, maggiori saranno le informazioni da riportare poi più facilmente sul libro giornale. Tra le tante operazioni finanziarie che possono essere annotate nella prima nota ricordiamo:

Consegnare la documentazione al commercialista

La prima nota cassa è un documento da consegnare periodicamente al proprio commercialista. Il contabile infatti utilizza la prima nota integrandone le informazioni in essa contenute per predisporre i documenti di:

  • elenco fatture emesse e ricevute (ordinandole in base alla data di emissione)
  • elenchi ordinati di altra documentazione, come ad esempio, buste paghe, ricevute, quietanze di pagamento, estratti conto, ecc…

Di conseguenza è facile intuire come la redazione corretta della prima nota sia il primo passo da compiere per avere una contabilità attendibile e ordinata. Da questa poi, è possibile studiare l’andamento della propria attività, individuando e analizzando eventuali andamenti positivi e negativi relativi alla gestione stessa.

Da precisare comunque che, a differenza del libro giornale, la prima nota non è un documento fiscale. Nel libro giornale la registrazione è molto più rigida e dettagliata. La Risoluzione del Ministero delle Finanze n. 9/101 del 09/08/1979 specifica infatti:

“Diviene un vero e proprio libro giornale con validità giuridica e fiscale quando è regolarmente numerato e bollato prima dell’uso e contiene tutte le operazioni di gestione di un’impresa”.

DIVENTA UN ESPERTO DELLA PRIMA NOTA

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Cuneo Fiscale: cos’è e perché è necessario ridurlo

In un nostro precedente articolo: “Evasione fiscale: un fenomeno dilagante” abbiamo visto cos’è l’evasione fiscale, l’elusione fiscale e come il Governo italiano ha deciso di affrontare una volta per tutte questa piaga dilagante nel nostro paese. I primi veri passi sono stati mossi con l’adozione della fattura elettronica e dei corrispettivi telematici. Strumenti innovativi suggeriti dall’Unione Europea e prontamente adottati anche nel nostro Paese. Uno Stato che, come purtroppo ben sappiamo, vanta uno dei primati più tristi che ci siano. È infatti in vetta alla classifica europea degli Stati Membro con la percentuale di evasione fiscale più alta che ci sia. Altro grande fenomeno italiano, identificato con il nome di cuneo fiscale, è un ulteriore fenomeno che piaga l’Italia ormai da diversi decenni. Legato all’evasione perché sempre di tasse si tratta e del costante scoraggiamento che queste provocano nell’impiego privato e pubblico. In poche parole il cuneo fiscale è un indicatore. Vuole infatti segnalare gli effetti che la tassazione ha sul reddito dei lavoratori, sull’occupazione e il mercato di lavoro (di conseguenza anche sull’elusione e l’evasione fiscale).

Cuneo Fiscale: il costo del lavoro

Il cuneo fiscale è la somma delle imposte (dirette, indirette e contributi previdenziali) che gravano sul costo del lavoro. Un peso che schiaccia sia i lavoratori dipendenti, i liberi professionisti, ma anche i datori di lavoro stessi.

In altre parole il cuneo fiscale è la differenza tra lo stipendio lordo versato dal datore di lavoro e la busta paga netta incassata dai dipendenti. A verifica del gravame su imprese e dipendenti, l’ISTAT ha condotto delle ricerche dalle quali è emerso che nel 2016, questo era pari al 46% del costo del lavoro. Un dato sconcertante. Per essere precisi il costo del lavoro è dato dalla somma delle retribuzioni lorde dei lavoratori e dei contributi sociali a carico dei datori di lavoro. Dallo studio ISTAT è quindi emerso che quello che rimane a disposizione dello stipendio al lavoratore, è poco più della metà del costo del lavoro stesso.

Tutto quello che rimane è il cuneo fiscale e contributivo, vale a dire la somma dell’imposta personale sul reddito da lavoro dipendente e dei contributi sociali del lavoratore e del datore di lavoro. La maggior parte è composto soprattutto dai contributi sociali dei datori di lavoro.

Inoltre è stata rilevata una sostanziale differenza di incidenza tra nord e sud Italia. Infatti nel nord Italia il costo del lavoro è nettamente superiore.

Lavoratore dipendente e cuneo fiscale

Per il lavoratore dipendente il cuneo fiscale è costituito da:

  • IRPEF
  • contributi previdenziali

Cuneo Fiscale

Lavoratore autonomo e cuneo fiscale

Per il lavoratore autonomo il cuneo fiscale è costituito da:

  • IRPEF
  • contributi previdenziali
  • IVA

Libero professionista e cuneo fiscale

Per il lavoratore autonomo il cuneo fiscale è costituito dalle seguenti imposte:

  • IRPEF
  • contributi previdenziali
  • IVA

Taglio del cuneo fiscale

Quest’anno è stato finalmente approvato il taglio del cuneo fiscale (l’ok da parte del Senato con a favore 254 voti). Con il decreto legge è attuata la norma della Legge di Bilancio con la quale sono stanziati oltre 3 miliardi per il 2020 e 5 miliardi per il 2021, atti a ridurre il carico fiscale.

Nonostante tutte le buone intenzioni dei vari Governi che si sono succeduti dal 2014 ad oggi, l’Italia è ancora uno dei paesi al mondo con il gravame fiscale più alto di tutti. Secondo il Taxing wages OCSE il peso delle tasse sul lavoro in Italia è infatti salito sopra il 49%, in confronto alla media che lo stesso ente ha registrato negli anni precedenti (pari a 35,9%).

Quindi il cuneo in Italia è da sempre uno dei più alti in Europa. In quasi tutti i paesi membri il maggior carico del cuneo è rappresentato dalla quota spettante all’impresa per i contributi fiscali e contributivi. Unica eccezione è la Germania dove tale quota grava maggiormente sul dipendente e non sul datore di lavoro.

Istruzioni certificazione unica: modello, informazioni e aggiornamenti 2021

Il 15 gennaio 2021 Agenzia delle Entrate(AdE) ha emesso un nuovo provvedimento con il quale ha pubblicato il nuovo modello CU definitivo per l’anno in corso. Allegato al modello sono state inserite le relative istruzioni certificazione unica per una corretta compilazione. Molteplici le novità inserite da AdE, sia per quanto riguarda le voci aggiuntive (come ad esempio il nuovo bonus IRPEF 2021, o le voci relative all’emergenza Covid-19), che la nuova scadenza prevista per il 16 marzo per la trasmissione ad Agenzia delle Entrate. Rimane invece invariata la data del 31 ottobre 2021 il termine ultimo per la trasmissione della CU contenente i redditi esenti o non dichiarabili tramite certificazione unica precompilata.

Istruzioni certificazione unica: modello e novità

I sostituti d’imposta usano la CU per dichiarare i redditi di lavoro dipendente e assimilati, redditi di lavoro autonomo, provvigioni e redditi diversi. In CU inoltre sono inseriti anche tutti i redditi derivanti dai contratti di locazione brevi relativi al periodo di imposta 2020.

Il 15 gennaio Agenzia delle Entrate ha emanato il provvedimento “dichiarazioni fiscali 2021 modelli definitivi 730, CU, IVA e 770″. Provvedimento con il quale è stato quindi messo finalmente a disposizione il modello definitivo della CU con le relative istruzioni certificazione unica. Il modello è quindi quello che deve essere obbligatoriamente utilizzato da:

  • tutti i soggetti che durante il 2020 hanno ricevuto denaro o valori soggetti a ritenute alla fonte
  • coloro che hanno corrisposto contributi previdenziali e assistenziali e/o premi assicurativi dovuti all’INAIL
  • tutti i coloro che sono assoggettati alla contribuzione INPS, anche se hanno corrisposto somme e valori per i quali non è prevista l’applicazione delle ritenute alla fonte
  • titolari posizione assicurativa INAIL
  • Amministrazioni che operano come sostituto d’imposta

CU: le novità sulle informazioni contenute nel documento

Il provvedimento  di AdE ha introdotto una serie di novità sui contenuti della CU. Ogni certificazione unica infatti, deve contenere:

  • frontespizio – dove sono riportate le informazioni relative alla tipologia di comunicazione, ai dati del soggetto che inoltra la CU, i dati del rappresentante firmatario della comunicazione stessa, firma e impegno alla comunicazione telematica
  • quadro CT – in questa sezione sono da riportare tutte le informazioni relative alla comunicazione telematica dei dati relativi ai modelli 730 – 4 resi disponibili dall’Agenzia delle Entrate
  • certificazione unica 2020 – sezione principale del modulo che deve contenere: dati fiscali, dati previdenziali, assistenza fiscale, certificazione lavoro autonomo, provvigioni, redditi diversi e i dati fiscali relativi alle certificazioni dei redditi relativi alle locazioni brevi.

Istruzioni certificazione unica

Certificazione Unica 2021: scadenze

Altra grande novità introdotta da Agenzia delle Entrate con il medesimo provvedimento del 15 gennaio, è quella relativa al calendario scadenze. Infatti il Decreto Fiscale 2020 e il Decreto Legislativo numero 9 del 2020 hanno stabilito un nuovo scadenzaria per far fronte anche all’attuale situazione pandemica dovuta alla diffusione del Covid-19. Entra quindi in ballo la scadenza unica datata 16 marzo (Consegna della Certificazione Unica ai lavoratori e Consegna dei dati CU all’Agenzia delle Entrate). Invariata invece la data del 31 ottobre 2021 pre presentare la CU relativa ai redditi esenti o non dichiarabili con CU precompilata.

La trasmissione della CU deve avvenire in forma telematica. Questa può essere fatta direttamente dal soggetto obbligato alla comunicazione, oppure tramite un intermediario abilitato.

Inoltre Agenzia delle Entrate specifica:

“Il flusso si considera presentato nel giorno in cui è conclusa la ricezione dei dati da parte dell’Agenzia delle Entrate. La prova della presentazione del flusso è data dalla comunicazione attestante l’avvenuto ricevimento dei dati, rilasciata per via telematica”.

Istruzioni certificazione unica 2021: modelli e novità fiscali

Quest’anno sono stati messi a disposizione due diversi modelli CU definitivi:

Assieme a questi sul sito di AdE sono presenti anche il Modello CU 2021 – Istruzioni dell’Agenzia delle Entrate  e la Certificazione Unica 2021 – Specifiche tecniche.

Molte le novità fiscali previste vista l’attuale situazione:

  • trattamento integrativo
  • detrazione redditi di lavoro dipendente e assimilati
  • clausola di salvaguardia per l’attribuzione del sostituto del bonus IRPEF
  • clausola di salvaguardia per l’attribuzione del trattamento integrativo in presenza di ammortizzatori sociali
  • attribuzione premio ai lavoratori dipendenti nel mese di marzo

Fringe Benefits: cosa sono e come funzionano

I Fringe Beneficts sono benefici collaterali, accessori. Si tratta di particolari benefici che sono riconosciuti ai dipendenti, da parte di alcune aziende e imprese particolarmente solide, erogati non in denaro, ma sotto altre molteplici forme. Sono quindi dei benefici supplementari alla busta paga, erogati per incentivare la produttività, oppure per integrare il semplice stipendio.

Quindi i fringe beneficts, o semplicemente beneficts, sono elementi aggiuntivi della retribuzione che concorrono alla formazione del reddito tassato del lavoratore dipendente. Si tratta di benefici in natura e non sotto forma di denaro, che migliorano la qualità della vita del dipendente, evitandogli di sostenere personalmente delle spese.

Molto spesso questi beneficts sono rappresentati dal cellulare aziendale, oppure dal computer portatile, o dal tablet, o ancora dalla casa in affitto, o dall’uso di un’auto aziendale. In particolare la concessione al lavoratore di un veicolo a uso privato, parziale o totale, è una forma di retribuzione in natura molto diffusa. I benefici aggiuntivi sono solitamente fissati nel contratto stipulato tra azienda e dipendente.

Fringe Benefits: tassazione

I fringe benefits sono tassati, ma con alcune eccezioni. Il Testo Unico sulle imposte stabilisce che:

“…il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali (ossia regali), in relazione al rapporto di lavoro”.

Essendo i benefici aggiuntivi beni che concorrono al reddito del lavoratore dipendente, sono soggetti a relativa tassazione. Ci sono, tuttavia, delle eccezioni. Se il dei beneficts erogati non supera i 258,23€ nel periodo d’imposta, allora non sono soggetti a tassazione. Se il limite è superato, il valore del bene allora concorre a formare il reddito e di conseguenza viene tassato. Questo vale per qualunque fringe beneficts percepito, da qualunque lavoro, anche diverso dal principale.

Fringe Benefits, benefici supplementari alla busta paga

Se l’azienda opera all’ingrosso e i beneficts concessi sono prodotti aziendali, il loro valore è calcolato considerando il prezzo che l’impresa è solita applicare al grossista. Il sostituto d’imposta (ossia l’azienda) deve applicare la ritenuta sul valore dei fringe benefits.

I beneficts possono essere elargiti mediante i cosiddetti voucher in formato cartaceo oppure elettronico, riportanti un preciso valore nominale. I voucher non possono essere usati da una persona diversa dal titolare, non possono essere convertiti in denaro o ceduti a terzi. Danno inoltre diritto a un solo bene, prestazione, opera o servizio, per l’intero valore nominale, senza che il titolare debba fare ulteriori integrazioni.

Fringe beneficts: le tipologie

La natura dei benefici concessi ai dipendenti varia molto. In alcuni casi, ad esempio, le aziende danno ai propri dipendenti la possibilità di acquistare uno o più beni prodotti dall’impresa stessa, con l’applicazione di un forte sconto sul prezzo di listino. È questo il caso delle aziende automobilistiche, che permettono ai dipendenti di comprare le vetture prodotte con sconti molto consistenti. Il valore nominale di riferimento, in questo caso, è rappresentato dal prezzo scontato che il costruttore applica sulla base di convenzioni ricorrenti.

In altri casi, invece, i datori di lavoro pagano i dipendenti fornendo loro dei buoni utilizzabili presso esercizi convenzionati. Il valore nominale è quindi rappresentato dal valore del buono stesso. Anche in questo caso non c’è tassazione se il valore non supera 258,23 euro.

Un altro esempio di fringe beneficts sono le opzioni sull’acquisto di azioni. Vale a dire che qualche volta l’azienda consente ai dipendenti di acquistare delle azioni dell’impresa stabilendo un preciso prezzo, che rimane sempre fisso e un termine entro il quale l’opzione può essere esercitata (stock options).

Digital Tax: cos’è e quando si paga

La digital tax è l’imposta sui servizi digitali contenuta nel provvedimento dell’agenzia delle entrate del 15 gennaio 2021. La tassa sui servizi dell’economia digitale ha trovato ispirazione nella direttiva europea COM (2018) 148 final. Mentre l’Europa si prepara a far debuttare una web tax europea, l’Italia si porta avanti (almeno per una volta) dotandosi di una propria imposta sui servizi online.

È vero che si tratta di una nuova tassa, che si va a sommare al carico già abbastanza pesante che i contribuenti italiani devono sostenere ogni anno, ma, per fortuna, i soggetti passivi rientrano in una specifica categoria. Ne verranno colpiti infatti gli esercenti attività d’impresa, anche non residenti in Italia, che, nel corso dell’anno, hanno realizzato ovunque nel mondo (da solo o in gruppo) ricavi non inferiori a 750.000.000 di euro, di cui almeno 5.500.000 nel territorio dello Stato. I piccoli commercianti, artigiani e liberi professionisti possono quindi stare tranquilli, per questa volta.

Digital Tax: soggetti inclusi ed esclusi dal pagamento

La digital tax è l’imposta sui servizi digitali con aliquota imposta al 3%. La tassa è stata istituita dalla Legge di Bilancio 2019 e modificata in seguito dalla Manovra dell’anno successivo. La tassa è quindi applicata alla fornitura di servizi digitali. I soggetti che singolarmente, o a livello di gruppo, nell’anno solare precedente, hanno realizzato:

  • un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni di euro;
  • un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali conseguiti nel territorio dello Stato non inferiore a 5,5 milioni di euro.

Sono considerati soggetti passivi. L’imposta è applicata sui rivani annuali, totalizzati in un anno solare. Non è calcolata o applicata trimestralmente. È probabile che il versamento debba essere effettuato entro il 16 febbraio dell’anno solare successivo a quello di riferimento. Le imprese interessate devono presentare una dichiarazione annuale contenente l’ammontare dei servizi tassabili, entro il 31 marzo dello stesso anno. Per quanto riguarda le società di gruppo, ne viene indicata una singola che debba far fronte agli obblighi derivanti dalle disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali.

Web Tax Europea: tutto è iniziato da qui

La Commissione Europea, nel marzo del 2018, aveva proposto la Web Tax applicabile a:

  • ricavi da vendita di pubblicità
  • cessione dati
  • intermediazione tra utenti e business

Digital Tax

L’obiettivo della Commissione era quello di tassare i profitti dei grandi di Internet (come ad esempio Amazon). Inoltre l’UE desiderava che ogni Stato Membro potesse tassare i loro proventi generati sul proprio territorio, anche se le aziende in questione non avevano una presenza fisica nello stato.

Affinché una società possa essere riconosciuta come una “presenza digitale tassabile” devono essere rispettati tre diversi criteri:

  • deve superare i 7 milioni di euro di ricavi annuali in uno stato membro
  • contare avere oltre 100mila utenti registrati in uno stato
  • deve avere oltre 3000 contratti per servizi digitali ad utenti business.

Nonostante gli obiettivi della Commissione Europea siano piuttosto chiari, la situazione rimane comunque in stallo. Questo perché molti paesi, come ad esempio Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, si oppongono fermamente. Il motivo è da ricercare nella bassa imposizione fiscale e nel meccanismo che consente ai colossi del web di eludere il fisco nazionale spostando liberamente i propri ricavi da un paese all’altro.

In attesa di una soluzione univoca, alcuni stati membro, come appunto Italia, ma anche Francia, Spagna, Ungheria e Gran Bretagna, hanno deciso di adottare soluzioni “locali”.

Digital Tax: immediata esecuzione

La disciplina in questione è stata trattata e studiata ampiamente con la Legge di bilancio 2019 ed è entrata immediatamente in vigore. Non c’è infatti stato bisogno di richiedere un apposito decreto ministeriale affinché l’imposta diventasse esecutiva. Nella norma sono quindi riportate tutte le indicazioni per:

  • prevedere le modalità applicative del tributo circa i corrispettivi colpiti
  • dichiarazioni
  • periodicità del prelievo
  • individuazione di ipotesi di esclusione
  • inserito l’obbligo per i soggetti passivi non residenti di nominare un rappresentante fiscale.

Le esclusioni italiane

La digital tax italiana prevede l’esclusione dall’imposta digitale per fornitura diretta di beni e servizi, nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello della fornitura agli utenti dell’interfaccia, da parte del soggetto che gestisce l’interfaccia stessa, di contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento”; la messa a disposizione di un’interfaccia digitale utilizzata per gestire diversi servizi bancari e finanziari

In altre parole sono esclusi dal pagamento della digital tax:

  1. banche
  2. siti aziendali
  3. soggetti finanziari già soggetti ad accise
  4. operatori telefonici
  5. fornitori di contenuti digitali, come TV e giornali.